Articolo della dottoressa Paola Scalari, psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG.
Un adulto è capace di ascoltare un bambino se sa ascoltare se stesso attraverso l’interrogativo: «Che cosa mi sta comunicando questo piccino?» Nessuna opinione deve rifarsi a convinzioni predefinite. Se non ci si astiene dall’avere già le risposte pronte, il bambino non si sente accolto e ammutolisce.
L’educatore capace di rimanere in un atteggiamento di ascolto crea un campo emotivo nel quale il bambino può, senza timore del giudizio, esporre i suoi dubbio, le sue fantasiose teorie.
È infatti nel non dare per già capito ciò che si ascolta, per compreso quello che si osserva, per catalogabile ciò che si sente, che si colloca la capacità adulta – non tanto di dare risposte – quanto di trasmettere un metodo per pensare. Come diceva un piccolo scolaro al suo maestro: «Aiutami a pensare quello che ho in testa».
È un atteggiamento che richiede una grande maturità nell’adulto educatore poiché l’animo infantile, anche quello del puerche vive in ogni persona, vorrebbe dominare la conoscenza. Ed è lì che s’annida il pregiudizio e con esso la convinzione di possedere ogni risposta.
Oggi l’idea di dominare le situazioni ammorba la mente di tanti adulti spaventati dall’accelerato cambiamento della vita che disorienta. La paura diviene arroganza, poi presunzione e infine uccide le domande.
Educatori fragili ritengono di potersi spiegare ogni cosa con slogan pre-pensati, vogliono apparire esenti da dubbi, evitano ogni approfondimento. Essi non trasmettono ai bambini un metodo per interrogarsi e ricercare. Formatori insicuri rinunciano all’idea di mettersi in discussione poiché la paura di non sapere li fa arroccare su sicurezze incontrovertibili, assolute. Essi non possono far crescere generazioni capaci di interrogarsi poiché, il non sapere, è percepito come disvalore.
Un contesto sociale incerto rischia di generare cittadini incastrati in convinzioni inamovibili che negano l’impossibilità di immaginarsi il domani. I figli di questo terzo millennio possono crescere senza dubbi, a volte presuntuosi, incapaci di formulare quelle idee innovative che nascono da sorprendenti interrogativi.
Una polis in trasformazione, se non sostiene tutti nel cambiamento dei legami tra le persone di ogni genere, cultura, provenienza, produce malessere. Le nuove generazioni, dominate da un mondo senza ideali, non vengono allora spinte a vivere in questo nuovo mondo domandandosi come creare una comunità capace di stare insieme pur nelle differenze. Tante diversità arrivano a convivere se sanno suscitare voglia di conoscere, tolleranza della complessità.
E la forbice tra chi sarà capace di divenire cittadino del mondo e chi rimarrà ai margini della società rischia di amplificarsi ogni giorno di più. Sta dunque nella relazione educativa l’opportunità di offrire a tutti i bambini quella testimonianza che permette a chi deve crescere di non sapere senza sentirsi mortificato. Non a tutto c’è una risposta, ma non per questo va evitato il porsi le domande che sorgono nella mente. Esse permettono di andare oltre il conosciuto senza temere la confusione che genera il nuovo, senza bloccarsi nel risaputo. Il principio base è allora accettare di trasformarsi in continuazione poiché, quando si sa qualcosa che prima non si sapeva, non si rimane mai uguali a come si era. La rigidità è l’antitesi alla curiosità e trasmette ai bambini l’idea di non dover riconoscere che la bellezza della vita sta proprio nella possibilità di imparare sempre qualcosa che prima era ignoto.
Gli adulti educatori possono allora non avere risposte, anche questo è un buon insegnamento per i bambini, ma non possono esimersi dal vivere nell’incertezza. Il valore da trasmettere alle nuove generazioni non è il possesso della conoscenza, ma il piacere di avvicinarsi sempre di più a essa. Gli educatori possono anche interrompere la catena dei perché dei più piccoli senza mancare di segnalare che i bambini vorrebbero saperne sempre di più e che questo atteggiamento è apprezzabile, ma che c’è un limite anche al chiedere bulimico. Non sempre si può andare oltre un certo confine. Non per questo è necessario rifugiarsi nell’illusione del sapere tutto. l’uomo deve accettare anche di non capire. Può costruire allora le sue spiegazioni. Religioni e filosofie vengono reinventate quindi da ogni bambino educato al piacere di venir ascoltato nelle sue richieste, ma anche a tollerare di non avere tutte le risposte. E questa costruzione del senso della vita attraverso un’idea delle relazioni tra gli eventi dell’universo e un’opinione dei vincoli tra le plurime rappresentazioni delle persone conosciute, è la cosa più stupefacente e avvincente del chiacchierare con i piccoli. Gli adulti quindi devono essere curiosi di sapere che cosa i bambini pensino e come concatenino gli eventi. Possono inoltre essere meno preoccupati della nozione esatta da trasmettere e più avvinti dalla funzione della mente pensante e interrogante. Spesso a una domanda di un bambino si può rispondere con un’altra domanda.
Aprire la Ricerca
Alcuni bambini hanno la fortuna di ricevere dai loro familiari il gusto del sapere. Sono questi dei piccoli che hanno sentito come invalicabile la linea di demarcazione che divide il mondo della coppia parentale da quello dei figli. Madri che non si sono confuse con i loro piccoli trasmettono loro il desiderio di diventare grandi. Padri che hanno mantenuto una funzione regolatrice tra mondo dei desideri e mondo reale regalano alla loro prole il piacere di conoscere e crescere. Altri bambini invece crescono in una promiscuità tra mondo adulto e mondo infantile.
A casa assorbono modi di pensare puerili e chiusi divenendo bambini che non sanno porsi domande umane, riflessive. Ma tutti questi piccini hanno l’opportunità di andare a scuola. Luogo per eccellenza della conoscenza e non tanto perché lì c’è qualcuno che sa e che insegna, ma in quanto Luogo dove si apprende un metodo per raggiungere il sapere. Ogni maestro allora riceve tra i banchi di scuola questi figli cresciuti in contesti che possono aver sollecitato il piacere dell’apprendere o possono averlo inibito. A lui il compito di riattivare il piacere della scoperta in chi lo ha visto uccidere e di incrementarlo in chi ha potuto assaporare il gusto di chiedere, domandarsi, essere interrogato.
Da questa convinzione è nata la scuola del fare Ricerca. Negli anni essa è divenuta una scuola di vita in cui i bambini possono scoprire il piacere di conoscere e conoscersi. Il maestro coordina il gruppo classe, osserva ciascuno nelle interazioni collettive, scruta i comuni movimenti intellettivi, analizza le inquietudini che saturano l’ambiente, argina le disgregazioni e facilita le aggregazioni. Nell’osservare questi atteggiamenti esterni comprende che si agitano dei movimenti interiori. Una volta che questo «emergente», punto d’urgenza del gruppo classe, è divenuto chiaro nella mente dell’insegnate egli lo propone alla classe sotto forma di interrogativo. Spesso formula per iscritto una domanda che implica l’inizio di una Ricerca su quel tema.
I bambini rispondono a queste domande individualmente e poi, tutti insieme, riportano nel loro quadernone le parti più significative delle risposte dei compagni. A questo punto la frase «Abbiamo capito che … » diviene momento di sintesi del pensiero che apre a nuovi interrogativi facendo procedere la classe nell’analisi dell’argomento.
Disegni e giochi di ruolo completano la Ricerca aperta dai quesiti che via via sviscerano il pensiero di ognuno e, nel confronto, il pensiero comune. Questa metodologia valorizza non solo le convinzioni di ogni alunno ma, attraverso lo scambio di opinioni, mette in moto in ognuno il piacere di sapere l’idea di altri e la capacità di estrapolare da queste diversità un’intuizione comune.
Una piccola vignetta può fungere da esempio.
Un giorno una mamma per dare una comunicazione all’insegnante entra in aula con la figlia neonata in carrozzina. La piccina piange. La classe, quando finalmente la madre esce, è in subbuglio. L’atteggiamento del docente non è quello di riportare il silenzio imponendolo né tanto meno procedere nella lezione come se nulla fosse accaduto. Bensì, cogliendo l’eccitazione per l’evento, chiede ai bambini di rispondere a questa domanda: «Perché la neonata piangeva? Scrivi una lettera a quella bambina». I componimenti sono poesia sull’umano esistere. Una volta letti in classe a voce alta agli scolari viene spontaneo chiedersi cosa loro abbiano pensato venendo al mondo. Domanda latente che le parole del maestro rendono esplicita aiutando gli alunni a formulare non solo le loro ipotesi, ma anche il piacere di farsi domande e tentare di dare a queste delle risposte iscrivibili nella verità emotiva e non in quella fattuale. La sospensione del giudizio è dunque essenziale affinché i bambini non inibiscano la loro sete di narrare e narrarsi. Ai docente il compito di dare gli strumenti per farlo. L’essenziale è sapersi porre domande, assumere l’atteggiamento mentale del ricercatore, far funzionare la mente. Finché questo non avviene un bambino non può essere desideroso di sapere cosa altri dicano. Le teorie già codificate rappresenteranno solo una voce autorevole con cui interfacciarsi nell’atteggiamento di ascolto curioso dell’altro che, sempre, permette incontri fecondi. Di questo però bisogna che famiglia e scuola facciano fare al bambino esperienza quotidiana.
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BIBLIOGRAFIA
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Adolescenti prigionieri di attrazioni fatali, Molfetta, La Meridiana.
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Prendersi cura della crescita emotiva, Molfetta, La Meridiana.
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