Ladri di Dio. L’emorroissa, il Sole rubato

terzo incontro biblico

Introduzione

Preghiera di Luigi Verdi: O Padre, Tu che conosci i bisogni della nostra anima, della nostra forma, della nostra mente, concedi ad ognuna di queste parti ciò che le è necessario. Donaci il pane, donaci la luce, donaci la gioia; perché per il pane, per la luce, per la gioia tu ci hai creato.

E se fosse Dio a passare oltre?

Dal vangelo secondo Luca 10,30-32

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 

Ancora una volta ci ritroviamo per metterci in ascolto della Parola di Dio. Ancora una volta abbiamo deciso di porci in silenzio e fare spazio a un Tu, Dio, che desidera incontrarci e donarci il suo Sole. La nostra presenza dice a noi stessi che vogliamo fare spazio, creare un luogo interiore dove poter riposare sulla Parola di Dio e chiedere a Dio di passare e riempiere la nostra casa. A questa consapevolezza, con le parole di introduzione dell’evangelista Luca, colgo forte una provocazione: e se fosse Dio a non accorgersi di noi? Se fosse Lui a passare oltre? A vedere e passare oltre? O peggio – se è peggio – a non vederci proprio, troppo preso dalla folla, o da altri miracoli più importanti da compiere per darci retta? 

Solitamente il brano è letto mettendo noi al centro della Parola, dove siamo noi chiamati a immedesimarci in quel sacerdote, in quel levita che vedono e passano oltre… e se invece fosse il nostro Dio a vedere e passare oltre? Lo so è tremendo solo a pensarlo e avevo timore a scriverlo e a condividerlo… ma mi sembra una buona domanda per immergerci nel brano dell’evangelista Marco che fra poco ascolteremo. 

Ma diciamo la verità: non lo abbiamo mai pensato? Non abbiamo mai accusato Dio per il suo silenzio, per la sua assenza, per la sua incapacità di farsi comprendere? La volta scorsa abbiamo parlato del deserto: non abbiamo mai avuto l’esperienza di un Dio lontano? Di un Dio che sembra voler farci morire di fame, di sete, di solitudine, di dolore, di paura? Mai avuto la sensazione che lui ci sfiorasse, ci passasse accanto, sentirne quasi l’odore e vederlo fuggire via, irraggiungibile? Lo so è Terribile! Ma ripeto e se fosse Dio a passare oltre? A non vederci? Perché Lui troppo preso d’altro e noi troppo piccoli, nascosti, spaventati? 


“ANAMNESI” di Marco Di Benedetto

Ci hai proposto un capovolgimento di prospettiva non facile, caro fratello Vanio. È una provocazione terribile quella che ci hai appena proposto. Un Dio che sembra sordo, indifferente o che, per citare il grande profeta Elia, «è occupato, in affari o in viaggio, forse dorme…» (cfr. 1Re 18)! È terribile. Eppure… come possiamo negare di non averlo mai pensato? Ogni volta che qualcuno grida al miracolo e ringrazia Dio di aver esaudito la sua preghiera (esperienza che peraltro ho vissuto recentemente in famiglia), mi viene spontaneo pensare a tutti coloro che in situazioni simili non sono stati ascoltati, esauditi, guariti… Cosa devono dire, loro? Preghiamo forse un Dio che fa differenze? Un Dio che ogni tanto sembra svegliarsi e dire: «ma si dai, questi li accontentiamo..»? Mi sento provocato a fare una sorta di “anamnesi” del mio rapporto con la preghiera e a chiedermi: perché pregare? Cos’è veramente la preghiera? Fino a che punto pregare? E mi rendo conto che nessuna di queste domande troverà risposta finché non ci confrontiamo, fino quasi a farci male, con la domanda fondamentale: CHI pregare?  Quando preghiamo, a CHI ci rivolgiamo? Al Padre di Gesù o a un’immagine interiorizzata di un dio che ci hanno inculcato in testa fin da bambini ma che non è mai cresciuto insieme a noi? Preghiamo il Signore risorto o diamo voce a una proiezione allucinatoria di quella parte di noi che non riusciamo mai a raggiungere? Invochiamo lo Spirito di Gesù o chiamiamo in causa quell’idolo religioso che veneriamo perché ci conferma nella nostra presunta giustizia e giustifica le nostre ipocrisie, senza richiedere né attivare in noi alcun cambiamento?   Nella preghiera cerchiamo un ansiolitico, un centro-benessere, un distributore automatico di caffè spiritualeggianti, o osiamo rischiare la vastità di una faticosa relazione con un Altro che ci riconsegna alla verità e al senso di noi stessi?  Mettendoci stasera alla scuola di questa donna pazzesca – come sono tutte le donne del vangelo, quelle donne che non hanno altro nome se non quello della loro ferita, ma che da quella ferita mostrano il volto sorprendente di Dio: oltre all’emorroissa di Marco, penso alla straniera cocciuta di Matteo, alla vedova importuna di Luca, all’adultera impaurita di Giovanni – e proviamo a vedere se anche per noi c’è una diagnosi e una terapia che ci permettano di vivere un’esistenza guarita. E permettiamoci di diventare anche noi dei ladri stasera, cominciando col derubare a Dio le false immagini che ci siamo fatti di lui e con le quali abbiamo offuscato il suo splendore.. spogliamo Dio di tutte le convinzioni – anche le “sacre” convinzioni teologiche – di cui lo abbiamo rivestito e cerchiamo invece solo di toccare il suo mantello…


Canzone: Lena

E se la parola tace, il corpo osa chiedere, mentre la ragione spera

Dal Vangelo secondo Marco 5,24b-34

Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi, piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: Chi ha toccato le mie vesti?» I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici «Chi mi ha toccato?»». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male.

Vie per l’ascolto

Dal Libro del Levitico 15.25-28: “La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle mestruazioni, o che lo abbia più del normale, sarà impura per tutto il tempo del flusso, come durante le sue mestruazioni. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante tutto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le mestruazioni; ogni oggetto sul quale si siederà sarà impuro, come lo è quando ha le mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà impuro; dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino a sera. Se sarà guarita dal suo flusso, conterà sette giorni e poi sarà pura”. 

E se la parola tace. La donna del Vangelo non ha nome. Quando accade questo nei Vangeli. l’autore desidera provocare il lettore a mettersi nei panni del personaggio biblico ma qui la donna se è vero che non ha nome, è altrettanto vero che lei è a tutti gli effetti indicata come l’emorroissa. Se andiamo alla lingua greca la donna è chiamata: flusso di sangue. Ecco il suo nome. Si chiama: colei che perde sangue. Tutto di lei era identificato in quel male. Il suo nome era il male stesso che subiva da dodici anni. Per tutti, per la folla, per i leviti, i farisei, per i poveri, i ricchi lei era flusso di sanguené più e ne meno e l’aggravante?  Che dal punto di vista religioso – come ci insegna il Libro del Levitico – questa malattia implicava l’emarginazione perché impura e portatrice di impurità. Un’emarginazione che certamente ha prodotto una solitudine e la solitudine implica il silenzio. La donna è la sua malattia. La donna è emarginata. La donna è sola. La donna tace.  Possiamo allora immaginare il grado di sofferenza in cui versava quella donna senza nome: isolata, privata di rapporti sociali, aveva interpellato i medici di allora, dal primo che le era capitato al più bravo o ritenuto tale, ogni volta sperando di guarire e puntualmente restando delusa. Il testo di Marco dice “aveva molto sofferto per opera di molti medici”, due “molto”, certo fisicamente e moralmente, tra l’altro raggiungendo la povertà, segno che un tempo era di condizione agiata. 

Il corpo osa chiedere. Eppure nonostante tutto questo silenzio e buio, il corpo della donna urla. Grida a tutti la sua malattia tanti che tutti la schivano. Quel corpo martoriato, ora, osa chiedere. Il suo corpo invoca presenza, chiede attenzione, implora vicinanza ma non trova tutto questo. Dodici anni terribili. Dodici anni vissuti da morta che cammina. Il sangue, infatti, nel mondo ebraico implicava la vita e lei, perdendo sangue e subendo questo da dodici anni, numero altamente simbolico, sta morendo (sangue perso) e morendo sempre (dodici). Quel corpo morente cammina da sempre, spargendo vita e spegnendosi dentro. Quel corpo avvolto da vesti per nascondere lo sporco, le bende rosse imbevute da cambiare in ogni momento perché non ci fosse cattivo odore. Quel corpo allontanato e visto con disprezzo da tutti. Eppure quel corpo comincia a parlare e si fa spazio fra sguardi e corpi violenti. Probabilmente tutti o molti la conoscevano. Quanta forza! Quanto bisogno di riscattarsi. Se la parola tace, sempre il corpo grida e si fa sentire. 

Mentre la ragione spera. La donna, flusso di sangue, sola, giudicata, allontanata, morente ragiona tra sé: Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata. Aveva sentito parlare di Gesù e della sua potenza. La sua fama lo precedeva e lei lo conosceva. Nel suo silenzio, in quel corpo che oramai gridava, la ragione spera. Sentito che Gesù passava di lì, la sua mente comincia a muoversi e quel buio in cui era immersa e avvolta, interiormente ed esteriormente, diventa una geografia di luce. Mentre tutto di lei segna il passa della fine, la sua mente spera. Si convince che solo toccando Gesù, sarebbe guarita. Lei sapeva, conosceva quell’uomo potente, e si mette in movimento. Tutto in lei muore, vita interiore (sangue) ed esteriore (corpo), ma la ragione vive, spera, respira e diventa movimento, passo dopo passo verso Colui che vedeva sempre dentro e oltre la folla e che in questo brano sembra passare oltre. Gesù non vide e non passò oltre, non percepì la sua presenza e passò oltre. 

Dunque: quando sembra che tutto sia messo a tacere, il corpo, la ragione, la fede, cosa si muove nel cuore dell’uomo? 


“DIAGNOSI” di Marco Di Benedetto

In ogni essere umano c’è come un istinto religioso. L’evoluzione del cervello ce lo dice. C’è un’area specifica nella zona prefrontale della nostra corteccia cerebrale, evolutasi centinaia di migliaia di anni fa, in cui risiedono i circuiti nervosi che ci permettono di creare simboli, svolgere riti, meditare e concepire l’idea della trascendenza, del divino.

Questo istinto religioso ci fa spontaneamente vivere la preghiera come un’esposizione più o meno ordinata dei nostri bisogni, delle nostre necessità, a un qualche Dio, nell’attesa speranzosa – ma tante volte anche disillusa – che quella tale divinità possa soddisfare le nostre richieste. E così accade che la preghiera, invece di essere esperienza di vastità, diventa via via l’allucinazione di un dialogo, che in realtà rimane un monologo, diventa la festa in maschera di una solitudine desolata che si traveste di relazione consolatoria con un Tu immaginario.  A tutto questo fascio di istinti, si aggiungono poi anni di sacrosanta educazione cattolica, magari vissuta nell’estenuante e sterile andirivieni tra moralismo (devi pregare se vuoi essere un bravo cristiano) e devozionalismo (più preghi questo santo, più fai questa coroncina, più santo diventi e più Dio ti dimostrerà benevolenza). Tutte cose, peraltro, che portano in sé un’intuizione spirituale molto seria, ma la sviluppano incamminandosi per la direzione sbagliata. A questa donna non sono mancati i medici, e forse nemmeno i soldi da spendere in tanti consulti specialistici, ma è mancata una buona diagnosi. Confondere i sintomi con la malattia, impedisce di guarire. L’emorragia non è la malattia, ma il sintomo. E invece quei medici l’hanno trattata come malattia, finendo col peggiorare la condizione di salute di questa donna, tanto da identificare lei stessa con la malattia. Lei è l’emorroissa.

Eppure, il sintomo è un indicatore non solo di qualcosa che non va, ma anche della possibilità di ritrovare via della guarigione. Ecco perché non è il caso di sottostimare ingenuamente i nostri sintomi. E se questo vale per la dimensione fisica e mentale del nostro corpo, quanto più vale per la vita spirituale che è punto di convergenza di tutto ciò che siamo, corpo-mente-spirito. 

Cos’è che ci spinge a cercare Dio? Perché ci mettiamo – bene o male, tanto o poco – a pregare? Riusciamo a fare una diagnosi dei nostri sintomi, ossia dei bisogni che ci spingono a cercare una qualche relazione con Dio? 

Questa donna non aveva bisogno solo di essere fisicamente guarita, ma sapeva di aver bisogno di ritrovare un nome, di un volto, di una identità unificante tutte le sue dimensioni esistenziali.

Perché, in realtà, il sintomo vero è la disgregazione interiore

Pensiamo a noi stessi…ai nostri sintomi…una discreta salute del corpo che sta però insieme a un umore malaticcio… un’intelligenza brillante che permette successi negli studi e nel lavoro, ma un’affettività immatura, bloccata, castrata… una religiosità fervente e praticante, ma un mondo infernale di pensieri e sentimenti quotidiani…e tanti altri esempi di disgregazione interna che, con un po’ di onestà, possiamo rintracciare nelle nostre situazioni personali. 

Ed è proprio lì, nel punto di disgregazione tra le energie affettive, cognitive e biologiche della nostra persona che anche noi perdiamo sangue, perdiamo forza vitale, perdiamo il senso di noi e della vita. 

Dov’è che la nostra vita si svuota? Attraverso quali esperienze, dentro quali relazioni, per via di quali dipendenze… Quali sono le ferite che continuano a sanguinare…a causa di quella parola, quello sguardo ricevuti come una coltellata.. per quell’errore commesso che ci rimorde dentro come un tarlo nell’anima…per quei rimpianti che ci rendono ciechi di fronte alle nuove possibilità, per quel dolore improvviso che ci ha iniettato un siero mortale di tristezza…?

Tanti sintomi… 

Ma una sola è la malattia: tutto l’amore che ci manca.

E una sola è la terapia: tutto l’amore che solo Colui che ha generato Gesù e che ha generato anche noi in Gesù, può farci sperimentare come tocco che guarisce, come una nuova creazione.


È sempre tutto così fragile tra potenza e luce, desiderio e coraggio 

Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata».

È sempre tutto così fragile tra potenza e luce. Forse non ce ne siamo accorti, ma come è possibile che questa donna sia lì in mezzo alla folla? Come è possibile la sua presenza in un momento di socialità così importante: Gesù che passa fra quelle vie?  La donna, lo abbiamo compreso, è emarginata, esclusa dalla società, posta agli angoli della vita, disprezzata eppure la troviamo qui fra la gente, nascosta in mezzo alla folla, chissà quanto disprezzo in questo passaggio, ma lei è lì a stringersi addosso ad altri corpi per arrivare a toccare l’unico corpo che le interessava. Questa donna manifesta una potenza straordinaria. Prima ancora della fede, prima ancora della speranza, prima della stessa morte che portava nella carne del cuore, lei è manifestazione di potenza e di luce. 

Potenza perché, nella paura che certamente aveva lei, esce dall’emarginazione, attraversa i giudizi, supera gli sguardi violenti della folla e va oltre, va verso Gesù perché diceva tra sé: se lo tocco sarò salva!

Luce perché come un faro è agevolmente visibile nella notte, così lei non è passata inosservata. Fra quella folla anonima, lei è flusso di sangue, è qualcosa, è qualcuno e il suo passaggio è certamente visibile a molti, o a tutti. Un passaggio luminoso in quelle tenebre. E così, la donna passa dal nascondimento allo svelamento, dal buio alla luce, dall’isolamento al tocco, dalla morte alla possibilità della vita e una vita piena.     

È sempre tutto così fragile tra desiderio e coraggio. Da dove questa potenza e luce? Da dove questa forza? 

Desiderio. La donna desidera. Tutta quella morte subita in quei dodici anni non l’ha spenta del tutto. La donna è sospinta dal suo desiderio di essere liberata dal male e ri-abilitata alla vita, resa nuovamente capace di relazioni. Il mutamento fondamentale è dal semplice bisogno di essere guarita al desiderio e alla speranza di una salvezza globale. È consapevole che non può farcela da sola. Che il bisogno e, poi, il desiderio necessitano di un Tu, che potesse avere la capacità di realizzare la guarigione. Ecco che questo desiderio mobilitano tutte le sue energie mettendola in cammino. Nulla accade di grande che non sia stato desiderato e sperato e scelto.

Coraggio. Così questa donna che sembra solo piccola e curva è viva testimonianza di coraggio. Perché non basta essere forti e potenti, non basta desiderare per mettersi in movimento, non è sufficiente la speranza, a un certo punto serve un grande coraggio per riacquistare la vita. L’aprirsi autentico della fede è sempre un atto di coraggio, perché la ricerca può risultare rischiosa, e il rischio chiede affidamento e questo a sua volta chiede nuovamente il coraggio. Andare dentro la paura e oltre il buio necessita il coraggio, un cuore forte e ardente, capace di mettere in moto capacità a volte sopite. Il coraggio è il miracolo che si compie prima del miracolo: malgrado la tua situazione appaia essere disperata, tu puoi andare oltre, puoi essere oltre. 

Potenza e luce, desiderio e coraggio… per riuscire ad arrivare a quel mantello, a quel tocco? Dove ritrovare oggi questo mantello? Questa possibilità di toccare? 


“TERAPIA”

Ben prima della pandemia da Sars-Cov2, era già in circolazione un virus estremamente affascinante e apparentemente benefico, ma portatore di una possibile illusione. Quella del mito del benessere, attorno al quale si è ingrassato un mercato davvero fruttuoso. Non che il benessere, il desiderio di star-bene, la ricerca della salute sia una brutta cosa, ovviamente. Anzi. È cosa serissima. È un’opera fondamentale e meticolosa della propria responsabilità verso se stessi. 

Solo che anche nella ricerca del benessere può esserci il rischio di confondere la “terapia” con il palliativo. In medicina, le cure palliative sono un atto di amore fondamentale verso chi soffre dolori insopportabili, ma accompagnano comunque alla morte, forse anche accelerandone i tempi. Se in ambito medico le cure palliative sono auspicabili e persino doverose, possiamo dire lo stesso per la vita spirituale? Siamo sicuri che la ricerca ossessiva del benessere sia la “terapia” più efficace a guarire la nostra malattia, la nostra mancanza d’amore? 

Forse anche molti di noi si sono convinti che il benessere sia il risultato di un equilibrio psico-fisico da raggiungere e mantenere mediante pratiche olistiche di qualche tipo, e spesso, più o meno consapevolmente, ricerchiamo questo tipo di benessere anche nelle forme cristiane della preghiera (cf. gli accenti devozionalistici sull’adorazione eucaristica). C’è però un problema (che in realtà è la condizione della nostra salvezza). La realtà non è equilibrio, stasi, calma piatta, ma è squilibrio, movimento di materia, trasformazione. La condizione che produce la realtà è la rottura delle simmetrie (con questa tesi i fisici quantistici Kobayashi e Maskawa vinsero il Nobel per la Fisica nel 2008). La realtà non è un fermo immagine, accompagnato da una dolce musichetta, ma è precaria, instabile, dinamica, sempre nell’atto di cambiare.  Chissà, forse la nostra donna evangelica – giochiamo a immaginare – avrà provato anche con la meditazione trascendentale o con corsi di yoga e ne avrà sicuramente trovato giovamento (la meditazione è una cosa seria!) ma a un certo punto ha osato scegliere la rottura dello schema invece che l’adeguamento ad esso, ha osato il movimento invece che il ritiro, ha preferito rischiare la liturgia dell’incontro piuttosto che rimanere sola con i suoi pensieri e le sue rassegnazioni.

Liturgia – come dice la parola greca alla sua radice – significa proprio azione di popolo e azione a favore del popolo. Liturgia è il punto di contatto tra la mia vita, coi suoi sintomi e le sue malattie, con l’evento che mi redime. Perché per guarirci dalla nostra fame radicale di amore non è bastata un’intuizione o un’idea su cui meditare, ma è servito che uno morisse e risorgesse. È servito un evento, un’azione, un movimento, un corpo sbrindellato. Non c’è “terapia” senza partecipazione a quell’evento, a quel movimento. L’emorroissa lo ha capito. 

Mi permetto di insistere ancora una volta sul potenziale trasformativo della liturgia, che è il lembo del mantello che ancora oggi, con la stessa impertinenza di questa donna divenuta figlia, possiamo provare a toccare. La celebrazione liturgica, proprio perché con i suoi riti e i suoi testi educa al senso profondo della preghiera, alla libertà del cuore, alla bellezza dell’evangelo, all’offerta di sé, è un evento che sprigiona la potenza di Dio ben oltre quelle che sono le forme esteriori, spesso miserevoli e mediocri, con le quali celebriamo. Anche io allora ho bisogno estremo di toccare quell’evento, quelle azioni, in tutta la loro fragilità (cos’è, in fondo, un pezzo di mantello?) e in tutta la loro potenza. Devo lanciarmi, devo anche farmi strada a spallate se serve, sconfiggendo pigrizie, prediche insopportabili e vuote, incompetenze nel celebrare. Non mi basta pensare e meditare l’amore di Dio. Voglio toccare le azioni con cui Dio mi ama! Non mi interessa se e quanto ne sono degno, se sono adeguatamente formato o un delinquente ignorante. Ce lo grida questa donna che arriva dai vangeli, e che quindi è ancora qui con noi – e le assemblee che celebrano qui, davanti a questo mosaico, non hanno scuse per aggirare il suo invito! 

A proposito di immagini…il Catechismo della Chiesa Cattolica introduce la Parte dedicata alla Celebrazione del Mistero cristiano, quindi ai sacramenti e alla liturgia, con l’immagine dell’affresco delle catacombe dei Santi Pietro e Marcellino (Roma), risalente all’inizio del IV secolo d.C., che raffigura proprio l’emorroissa nell’atto di toccare il mantello di Gesù. La dimensione sacramentale e liturgica della vita ecclesiale è la possibilità che ci viene costantemente messa a disposizione per vivere esattamente quello che ha vissuto questa donna. Ma è anche un’occasione per fare ripetutamente di quell’offerta uno spreco, nel momento in cui viviamo la liturgia ancora bloccati sulle logiche del precetto o presentandoci a metà, senza corpo o senza mente o senza spirito. Le nostre celebrazioni rischiano di essere un po’ come quella strada affollata di gente che si stringe attorno a Gesù ma non riesce a rubargli niente, perché il loro corpo di carne non è integrato coi desideri del loro cuore, e così non toccano un bel niente pur toccando il corpo di Gesù (e le “cose sacre” della liturgia).  Sono religiosi, forse, ma non hanno ancora capito che la potenza di Dio passa per un’umanità integrata, e non per la religione.


L’amore da il meglio di sé solo quando viene ferito

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: Chi ha toccato le mie vesti?». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto.

Lo stupore di Gesù per la dynamis uscita da lui. Perché Gesù si stupisce che una forza è uscita da lui, quasi non la controllasse? Sembra che Gesù non agisca attivamente. La donna tocca il mantello e entrambi si accorgono di qualcosa di sorprendete. Gesù si accorge di una dynamis che passa da lui alla donna e la donna si accorge di essere guarita. Il suo timore e paura sono atteggiamento reverenziali. Si è accorta che in lei è accaduto qualcosa di “enorme”. Questo timore esprime abitualmente la reazione umana di fronte all’azione all’insegnamento divino. L’inatteso e l’umanamente impensabile che raggiunge l’uomo lo lascia nello sbigottimento. La successiva espressione participiale «sapendo quello che le era accaduto» sembra confermare la nostra interpretazione: il turbamento che la pervade è legato alla coscienza che la sfera del divino ha toccato la sua esistenza e l’ha sconvolta! E proprio a partire da questa coscienza e dalla conseguente reazione che la donna trova la forza di venire a Gesù e di gettarsi ai suoi piedi.

Perché Gesù rimane stupito? Perché è stato sufficiente quel tocco per la realizzazione di quel miracolo? Perché Gesù è questa forza, questo bene che va al di là della sua stessa volontà. Dio non ama, Dio è amore; Dio non usa misericordia, Dio è misericordia; Dio non guarisce, è guarigione. Dio non può decidere se fare del bene o non farlo; Dio non dice: “adesso decido di amare questa persona”. 

L’energia che esce da Gesù, esce nel momento in cui viene toccato da un male: questa donna è impura, malata, e questo vale per tutto – per le fragilità, per il peccato. Mettiamo in relazione questi due aspetti che è come se l’energia divina fosse catturata dal male; cioè, il nostro male permette la fuoriuscita di energia da Dio. Questa donna era una maledetta, non poteva avvicinarsi a nessuno, eppure tocca Gesù, ed è come se il male fungesse da catalizzatore del bene; è come se il vuoto che si avvicina alla pienezza gli permetta di riversarsi; è come se il nostro peccato fosse la condizione sufficiente e necessaria per ricevere la misericordia. Quando il male, l’impurità, il limite tocca Gesù, scaturisce da lui, quasi per necessità, esce una forza di bene generatrice/salvatrice.  Questa logica torna nel vangelo, con una chiarezza disarmante, il male che viene scatenato su di lui gli permette, anziché diminuirlo, di dare il meglio di sé. Il massimo di questo è avvenuto sulla croce: qui si è scatenato il massimo del nostro male e da lui è scaturito il massimo del bene.  Il nostro male gli ha permesso di darci il massimo del bene. È certo che è una logica strana, questa: il male che si scatena su Dio gli permette di dare il meglio di sé; detto in altri termini: l’amore da il meglio di sé solo quando viene ferito…”se il chicco di grano non muore, non può fare frutto”. Il male che si scatena contro di noi è la possibilità di portare frutto.

Ladra di Dio

Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male.

Gesù conferma che la guarigione è opera della donna. La parola conclusiva di Gesù inizia con l’appellativo figlia. L’uso di un termine familiare connotante affetto segnala certamente che si è stabilito un legame personale tra Gesù e la donna. L’accostamento dei due termini salvare e figlia concorre a dare l’idea di una vita nuova per una donna che andava verso la morte. Gesù riconosce, chiamando la donna figlia che, in forza della fede, è nato in lei un essere nuovo. La donna è stata rigenerata. 

Gesù dichiara: la tua fede ti ha salvata. Qui Gesù non solo ammette che una forza è uscita da lui senza suo consenso, quasi rubata, ma che quella forza è uscita grazie alla fede di quella donna.  La tua fede rivela proprio questo: la fede autentica genera sempre salvezza. Audace sarebbe affermare che non è stato Dio guarire la donna ma la fede stessa della donna. Detto altrimenti: la fede della donna ha permesso alla potenza di Dio di passare attraverso Gesù e realizzare la guarigione desiderata nella sua carne ed esistenza. L’esperienza divina nell’uomo e nella donna di ogni tempo è sempre una questione di dialogo tra “potenze” divino-umane, tra Dio e l’umanità in Cristo che rende possibile questa comunione. Dunque che cosa significa pregare?


GUARIGIONE

Pregare non è una questione di pratiche, non è una tecnica, non è un frammento meditativo o recitativo, più o meno lungo, da inserire nel corso delle nostre giornate. Non è un “prendere fiato” per poi tornare alle solite cose. 

La preghiera è una questione di postura. È l’assetto che diamo al nostro viaggio. 

È la costante attitudine a vivere le nostre quotidiane faccende in profonda e autentica connessione con la Vita di Dio. È un esporsi davanti a un Tu, piuttosto che girare attorno a un Io. 

Pregare è rubare tempo a Dio, che è eternità.

Pregare è invadere lo spazio a Dio, che è infinito.

Pregare è violare l’intimità di Dio, che è Comunione d’Amore.

La preghiera, in tutte le sue variegate tonalità – dal silenzio che si apre all’invocazione alla domanda che supplica, dal ringraziamento che si fa lode alla protesta con cui si lotta – è la misura della nostra persona, è la prova che siamo costituiti come esseri-in-relazione, radicalmente bisognosi di compiere noi stessi e la vita che ci è affidata mediante un’apertura fiduciosa e autentica verso l’Altro e gli altri. 

Quando non ci limitiamo a cercare dei “bei” momenti di preghiera o il prete che più ci emoziona per le sue omelie..  ma rischiamo di vivere la vita nella postura della preghiera e nel movimento della liturgia, allora ci si spalanca davanti la possibilità di sperimentare la guarigione, venendo riconosciuti anche noi come “figlie e figli”. In fin dei conti, quello che ogni donna e ogni uomo cerca nel corso della sua vita, quella terapia dell’amore che davvero guarisce in profondità il cuore dell’uomo, che realizza il miracolo (questo sì) della integrazione profonda di sé, è il riconoscimento.

A noi non basta guardarci allo specchio per sapere chi siamo, e anche i percorsi di autoconoscenza, per quanto possano essere utili e spesso – sempre! – anche necessari, manifestano la loro potenzialità proprio quando orientano alla relazione con l’altro. Il tocco che guarisce, accordando le corde della vita sulle tonalità della felicità evangelica è l’essere riconosciuti dall’altro, compresi, accolti, ritenuti degni della responsabilità della vita e dell’impegno per cooperare alla venuta del Regno di Dio, della signoria della giustizia e della pace. 

Questa è una vita guarita. Non quella – illusoria – in cui non ci sono più fatiche da affrontare e ostacoli da superare, ma quella in cui si vive danzando liberamente la propria autenticità, quella che fiorisce dal contatto tra la propria ferita profonda e un corpo che la salva. 

Si tratta di un corpo a sua volta ferito. È il corpo di Cristo, che è la Chiesa. 

Consentitemi di condividere brevemente l’impressione che mi ha fatto leggere le unanimi risposte che i miei circa 180 studenti tra i 16 e i 19 anni hanno lasciato alle domande che ho loro proposto per l’ascolto sinodale. Ne è emersa una visione della Chiesa come di una realtà prevalentemente corrotta, falsa, ipocrita, malata di potere, incapace di comunicare, bigotta, non sintonizzata coi veri problemi di oggi, giudicante e piena di pregiudizi, accogliente solo a parole. Insomma, un corpo ferito. È il corpo di una Chiesa che perde sangue non da 12 anni, ma dai 12 angoli apostolici della terra in cui è presente, nel suo essere “cattolica”, universale.  L’emorroissa è in fin dei conti figura della Chiesa, è specchio di una comunità anche piccola, locale, che cerca di toccare il mantello del suo Signore che passa per le strade della storia. È annuncio profetico di una fraternità possibile, mentre nel mondo (oltretutto, tra cristiani!) ancora ci si combatte.   Una fraternità che è possibile se prima si passa per il riconoscimento della propria identità di figli e di figlie. Senza questa salvezza, non si genera nulla di nuovo. 

Ma noi sappiamo che questa salvezza è qui, ci tocca e ci chiama per nome.


Per concludere

In quest’ora, fra il buio e la luce, raccogli le gioie e i rimpianti, e tutta l’incoerenza che mi aggredisce. In quest’ora, fra il giorno e la notte, percorro il filo degli avvenimenti, prima di restituirmi e dormire al tuo nudo chiarore. In quest’ora, fra il rumore e il silenzio vieni più vicino, stammi accanto rendimi sincero, toglimi l’ombra che mi invecchia il cuore. In quest’ora, fra la fretta e la quiete, torni l’infinito a liberarmi del limite, torni l’eternità ad annullare il tempo. In quest’ora, fra il chiarore e l’ombra, fai che ciò che ho raccolto oggi di luce, domani lo ritrovi nell’aurora. Amen. (di Luigi Verdi)

Una risposta a "Ladri di Dio. L’emorroissa, il Sole rubato"

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