Repellere l’amore. Il cantico dei cantici



Repellere. La costola

Repellere l’amore. L’amore è passione e attrazione. È forza e debolezza. Ma perché parlare di amore? In un percorso in cui si approfondisce la grammatica dell’esistenza, cercando di offrire delle chiavi di letture delle nostre emozioni, non poteva mancare l’amore. Esso, infatti, è l’emozione più potente che è presente nell’uomo. Emozione che se scelta trasforma l’esistenza stessa dell’uomo, il suo modo di pensare, scegliere, vivere, morire. Faremo tutto questo percorrendo alcune pagine del Cantico dei Cantici, il libro biblico per eccellenza dell’amore umano e divino insieme.

Ancora una volta, teniamo sullo sfondo la pelle – re-pellere – e se in Giobbe la pelle era coinvolta perché colpito da una malattia che lo debilitava e lo rendeva poco desiderabile e inavvicinabile, nel Cantico dei Cantici la pelle è la via dell’amore, è il luogo della tenerezza, è possibilità di prossimità e intimità. La pelle diventa comunicazione dell’amore, dell’eros, della potenza dei gesti, della promessa della fecondità, della crescita. Ma come sapete, questo incontro ha per titolo la parola amore anticipata da repellere.

Ho scelto questo verbo per mantenere forte il legame della pelle, come già scritto sopra. Ma il verbo repellere indica una forza di repulsione dell’altro. Significa respingere, urtare, ripugnare, allontanare, provare avversione verso qualcosa o qualcuno.
Del resto l’esperienza amorosa, come vedremo fra poco, ha sempre a che fare con l’attrazione e la repulsione, la vicinanza e la lontananza, il bisogno dell’altro e la necessità di avere i propri spazi, la “fusione” e la distinzione, la presenza e la mancanza, il desiderio e il rifiuto.

Nel libro della Genesi emerge con chiarezza questa dimensione dell’esperienza amorosa.

La mancanza costitutiva


E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». 21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. 22Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». 24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. 25Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.
Genesi 2,18.21-25


Quando Dio crea il mondo opera una sorta di taglio in se stesso. Si taglia la creatura dal Creatore: nessun uomo è Dio. Dio poteva farsi i fatti suoi nella sua Onnipotenza e Onniscienza in cui si trovava, ma ad un certo punto Dio desidera creare il mondo, qualcosa fuori da sé e genera il mondo per donazione. Dio si mobilità per creare

qualcosa fuori da sé.
La creazione è frutto di un desiderio di Dio. Dio crea il mondo per separazione e per donazione. Egli è un Dio che parla, che desidera, che crea. Ma per realizzare questo, Dio ha dovuto compiere un taglio in sé stesso. Egli infatti quando crea si deve assentare da ciò che crea, cioè deve lasciare libera la creatura, ma per lasciarla libera la deve abbondonare. Ha dovuto ritirarsi perché le creature potessero esistere. Dio realizza una separazione, un esodo. Accade in tutti i rapporti di filiazione. Quando si realizza pienamente un rapporto genitori-figli? Quando si scioglie, quando si separa, quando l’altro è lasciato libero di esprimere sé stesso. Questo fa il Dio ebraico: egli mentre crea si assenta da ciò che crea; il mondo diventa creato perché è “senza” Dio e la creatura è radicalmente libera.

Poi c’è un secondo taglio quello tra Adamo e Eva. Adamo è nella depressione perché non trovava nessuno che gli corrispondesse. Dio decide di aiutarlo e lo anestetizza, il torpore, e compie la sua operazione. Taglia la carne, la apre e toglie la costola, e genera Eva, ossia consente la relazione, e poi richiude il taglio. Eva è il nome della relazione che salva Adamo dalla depressione. L’uomo senza l’ossigeno della relazione muore, perché se nessuno lo ascolta, egli muore. Poi Dio chiude la ferita e questa chiusura del corpo di Adamo è essenziale, perché non è semplicemente la conclusione dell’intervento, ma è rendere questa mancanza definitiva. C’è un pezzo del corpo di Adamo da cui è generata Eva. Adamo subisce una sottrazione: una parte del corpo di Adamo è messo in Eva, ma quel buco Dio lo richiude perché resti per sempre.
L’essere umano è fatto di mancanza dell’altro. Non è un Dio perché è fatto di mancanza. Mancanza dell’altro e senza l’altro siamo morti. Ecco il desiderio: è la spinta che porta l’uno a cercare sempre l’altro per completare quella mancanza, per ritrovare quella parte mancante, senza però ricomporre mai l’intero, perché la mancanza è costitutiva.

Nel testo ebraico non avviene mai la ricomposizione, perché la mancanza è costitutiva. Dio non permette che questa mancanza venga ricomposta, perché questa mancanza è il motore del desiderio. È vero, nel Vangelo, Gesù annuncia che l’uomo e la donna che si uniscono diventeranno una sola carne, ma non nel senso di una unificazione, che colma la mancanza costitutiva, ma nel senso della procreazione, ossia nel figlio generato da entrambi i due saranno una sola carne. L’unificazione della coppia avvien fuori dalla coppia, nel figlio.

Nel Cantico dei cantici, questo aspetto è molto chiaro. Gli amanti si cercano, si attraggono, si raggiungono, si perdono, si uniscono ma senza mai essere uno. La separazione fonda il rapporto, la mancanza è parte integrante dell’amore. Il rapporto si costruisce sul fondamento della separazione. Il rapporto non ricuce la ferita, non è il rimedio della separazione. Il rapporto è fondato sull’esilio a cui entrambi sono assegnati a causa di questa mancanza costitutiva. Le coppie che stanno male, che non reggono, che scoppiano sono le coppie che vogliono fare uno a tutti i costi e non rimanere due.


Cantico dei Cantici, di Salomone. 2Mi baci con i baci della sua bocca!
Sì, migliore del vino è il tuo amore. 3Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza,
aroma che si spande è il tuo nome: per questo le ragazze di te si innamorano.
4Trascinami con te, corriamo! M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo di te, ricorderemo il tuo amore più del vino. A ragione di te ci si innamora!
Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare le greggi, dove le fai riposare al meriggio, perché io non debba vagare dietro le greggi dei tuoi compagni? 8Se non lo sai tu, bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e pascola le tue caprette presso gli accampamenti dei pastori. 13L’amato mio è per me un sacchetto di mirra, passa la notte tra i miei seni. 14L’amato mio è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi. 15Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe. 16Come sei bello, amato mio, quanto grazioso!
Erba verde è il nostro letto, 17di cedro sono le travi della nostra casa, di cipresso il nostro soffitto. 

Cantico dei Cantici 1,1-4.8.13-17

Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. 2Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato. 3Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: «Avete visto l’amore dell’anima mia?». 4Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amore dell’anima mia. Lo strinsi forte e non lo lascerò, finché non l’abbia condotto nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha concepito. 5Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amore,
finché non lo desideri.

Ctc 3,1-5


Ciò che è centrale nel Cantico non è il possesso, la consumazione dell’amore, ma il desiderio dei due sposi. Questo penso sia il punto centrale spesso trascurato da chi legge il Cantico come un canto esclusivamente erotico. Basta vedere come finisce il libro. Non finisce con il possesso. Lo sposo canta alla sposa: “Tu che abiti nei giardini, i compagni ascoltano la tua voce, fammela sentire”.
Il giardino è lo scenario privilegiato del Cantico perché richiama l’Eden e qui lo sposo non solo è distante dalla sposa, alla fine del libro, ma non sente nemmeno la sua voce, a differenza dei suoi compagni, e desidera ascoltarla.
Il paradosso del rapporto tra gli amati: un cercarsi e un trovarsi, un abbracciarsi per poi perdersi di nuovo, cioè è lo stesso paradosso della storia della salvezza.
Ad esempio, nel Santo dei Santi, secondo l’Antico Testamento, Dio è presente ma non si può “inscatolare in una stanza”, Dio è sempre presente ma non lo vediamo, non riusciamo a scorgerlo … questa è tutta la storia della salvezza.
Per questo il libro della Genesi si apre con Adamo ed Eva che in un giardino perdono l’amato cioè la comunione con Dio, e perdendo l’amato, perdono l’armonia con sé stessi e con il mondo. Ecco perché alla fine del Vangelo, nella Nuova Alleanza, Gesù si consegna in un giardino, si dice che il Golgota e il Santo Sepolcro sono in un giardino e, poi, sempre in un giardino l’amato, Gesù Risorto, si fa ritrovare da Maria Maddalena e quindi da ognuno di noi.

Intervento di Ilaria e Marco: percorsi del desiderio

MARCO: Quando Ilaria rientra a casa dal lavoro la sera, sento il portoncino al piano terra sbattere, sento i suoi passi in fondo alla scala, li riconosco tra tutti quelli dei vicini di casa che salgono le stesse scale, e allora corro ad aprirle la porta, e la abbraccio. Quando invece sono io a tornare dal lavoro in un orario in cui Ilaria è a casa, lei, sapendo l’orario di arrivo del mio treno (abitiamo a due passi dalla stazione!), sta alla finestra e appena mi vede arrivare mi saluta come se non ci vedessimo da mesi. Avendo sentito questo, direte che siamo troppo romantici, che siamo ancora in luna di miele, che tutto questo passerà… ecc. ecc. E perché tutto questo dovrebbe passare? Perché il desiderio deve per forza spegnersi col tempo? Se non osassimo sperare che il desiderio resti la forza di attrazione del nostro stare insieme, non sarebbe il matrimonio in sé a perdere di desiderabilità, ma la vita stessa. D’altro canto, «il desiderio è questione di vita e di morte: se mi allontano troppo dal mio desiderio […] questo fa ammalare la vita» (M. Recalcati, La forza del desiderio, Qiqajon, Magnano 2014, 30).

In occasione del nostro matrimonio, io e Ilaria ci siamo detti che abbiamo fatto di tutto per non stare insieme, per provare a dirci che eravamo troppo diversi, che non poteva funzionare, che c’erano troppi ostacoli interni ed esterni. Ma a un certo punto ci siamo arresi al fatto che un Desiderio che ospitavamo sia lei che io nel cuore, nella mente e sulla pelle, ci ha attirati a sé in maniera invincibile e ci ha consacrati nel matrimonio. Questo incontro tra noi è originato da un Desiderio che abbiamo riconosciuto nostro ma di cui, allo stesso tempo, non eravamo i possessori. Sentiamo il dovere di tenere viva questa consapevolezza se vogliamo andare avanti insieme, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, sotto la guida del Desiderio che ci ha attirati l’uno verso l’altra.

ILARIA: Ed è proprio la mancanza del Desiderio, ovvero il sentirsi distanti, separati, ciò che porta la coppia al conflitto. Non faccio riferimento esclusivamente al desiderio sessuale ma alla dimensione più ampia della ricerca dell’altro, del desiderio dell’altro che è il motore da cui, in realtà, ogni relazione nasce o, almeno, dovrebbe nascere. Tanto che, quando le coppie in crisi arrivano in terapia, fra le prime domande ai coniugi, chiedo questo: cosa vi ha attratti di lui, di lei e, secondariamente, che ne è stato di questa attrazione nel corso della vostra storia di coppia?

Ponetevi anche voi questa domanda: Cosa mi ha attratto di mio marito, di mia moglie, del mio compagno o della mia compagna? Pensate proprio ai primissimi istanti in cui vi siete conosciuti o in cui avete cominciato a sentire che per quella persona, casomai già presente nella vostra vita nella veste di amico, di amica, cominciavate a provare qualcosa.

È naturale che l’attrazione possa essersi inizialmente agganciata a un aspetto fisico: il corpo, la pelle liscia, il tono muscolare, i tratti simmetrici, le labbra piene, il sorriso, lo sguardo. Ma non esiste solo il senso della vista nel sancire l’attrazione. Pensiamo a quanto fa la differenza il suono e il timbro della voce, così come l’odore della pelle. Può essere che vi abbia colpito l’atteggiamento dell’altra persona, il suo modo di porsi, di interagire. E solo secondariamente, quando ci si relaziona direttamente,, emergono gli aspetti del carattere. Allora ecco che spiccano l’intelligenza, la gentilezza, l’empatia, la capacità di far sorridere, l’intraprendenza, la socievolezza… e dopo questi elementi che colpiscono già alla prima chiacchierata, con l’andare avanti della conoscenza l’attrazione e la tensione verso l’altro si nutrono di altri aspetti fondamentali, come la somiglianza in dimensioni quali lo status sociale e la sicurezza economica, la cultura, la religione, i valori e la progettualità di vita, come il voler aprirsi o meno alla genitorialità.

Tutti questi aspetti, per ognuno diversi e particolari, sono però elementi di superficie perché di fondo, tolta la poesia attorno all’Amore, noi ci innamoriamo non tanto di quegli occhi, di quel corpo o di quell’atteggiamento specifico dell’altra persona, ma ci innamoriamo di chi, inconsciamente, risponde ai nostri bisogni più profondi. Infatti, se ci pensiamo bene, quando scatta l’innamoramento noi non conosciamo ancora la persona che abbiamo davanti per quella che è, per la sua realtà, e in effetti non può essere diversamente perché c’è bisogno anche di un tempo fisiologico affinché si possa dire di conoscere davvero l’altro.

Quello che avviene nella fase dell’innamoramento è l’incontrarsi di bisogni, di proiezioni e di fantasie inconsce che vengono trasferite, spostate, sull’oggetto amato. Quindi noi non ci innamoriamo dell’altro, ma di chi pensiamo che l’altro sia. Questo meccanismo è normale e rende evidente che la scelta del partner ha inevitabilmente a che fare anche con aspetti inconsci ben più profondi del mero aspetto fisico o carattere dell’altro.

A volte si sceglie il partner per somiglianza, ovvero in continuità con lo stile e i modelli familiari, a volte per opposizione rispetto a quanto si è vissuto e proprio per questo si cerca qualcosa di totalmente diverso rischiando però di muoversi nella linea dell’ipercorrettività ossia la tendenza a correggere troppo il tiro rispetto alla propria esperienza; altre volte si sceglie il partner per differenza ovvero per quegli elementi innovativi, creativi e diversi che però né si oppongono né si omologano ai propri vissuti familiari.

Nella prima parte del Cantico dei Cantici ritroviamo il dialogo di due amanti nella fase del corteggiamento e dell’innamoramento, momento che inaugura l’inizio di un rapporto di coppia. Anche nella realtà, così come nel Cantico, questo momento può essere visto come un continuum di echi per i sensi e i sentimenti in cui le fantasie dell’uno e dell’altra si rispecchiamo e riverberano in una sorta di gioco, in cui ognuno cerca e ritrova nell’immagine dell’altro, che è ancora un estraneo, ciò che invece è familiare. Tutto all’inizio è bello, tutto è “magico”. Le ricordate le farfalle nello stomaco…? Gli innamorati, in questa fase di corteggiamento, dedicano l’uno all’altra un’attenzione unica vivendo una sorta di beatitudine. A livello psicologico l’innamoramento, chiamato anche fase della “Simbiosi” è considerato una vera e propria illusione, un momento in cui i due partner vivono una realtà ovattata, e quindi alterata, ma comunque naturale e non patologica. Le sensazioni e le emozioni sono forti e continue. Si ha l’impressione di non poter esistere senza il partner per la totale fusione con lui, tanto che non esistono chiari confini, non si sa dove finisca uno e dove inizi l’altro, e questo si riflette nell’uso quasi ossessivo e continuo del “NOI”. Per mantenere questa simbiosi è indispensabile che le somiglianze tra i due partner vengano intensificate mentre si tende a trascurare le differenze per cui i vizi dell’altro sono virtù e vengono quindi idealizzate in maniera romantica.

Per quanto si abbia la sensazione che la propria attenzione sia completamente rivolta all’altro, in realtà si è centrati del tutto su se stessi e sui propri vissuti. Infatti, questa visione fisiologicamente “alterata” dei partner, è resa possibile grazie al meccanismo psicologico della proiezione, ovvero io proietto nell’altro (proprio come se fosse una tela bianca e io il proiettore) le mie proiezioni su di lui, ovvero come io ho bisogno di vederlo. Ecco quindi che il partner si fa portatore inconsapevole delle mie aspettative e reciprocamente ci si idealizza e si nutrono fantasie sul partner, con l’inevitabile conseguenza di falsificare l’altro vedendolo come una sorta di prolungamento di sé e non guardando ad esso per quello che realmente è, ovvero Altro rispetto a sé.

I meccanismi di proiezione e idealizzazione non possono però mantenersi in eterno e per quanto si cerchi di nascondersi o scappare, ad un certo punto il velo di Maya con cui si è avvolta la realtà verrà svelato e si guarderà al partner, e alla relazione con lui, per quello che è.
L’innamoramento è comunque una fase fondamentale e imprescindibile nella costruzione di un legame di coppia perché permette ai due innamorati di trovare la sintonia e di rafforzare il legame prima dell’incontro con la realtà. Lo scopo dell’innamoramento è quindi la creazione di una base solida per la costruzione di una relazione alla quale si giunge proprio realizzando questa comune iniziale sintonizzazione. Infatti, perché una coppia possa mantenersi solida nel tempo, è imprescindibile l’aver sperimentato quella “luna di miele” alla quale tornare nei momenti di tempesta e da coltivare e mantenere nella propria scelta quotidiana andando oltre lo scontato e mantenendo vivo il Desiderio.

MARCO: Se una coppia e una famiglia, se una comunità (cristiana e/o civile) perdono il contatto e il linguaggio del desiderio, sono destinate a diventare agenti patogeni per la vita delle persone, e ne vediamo quotidianamente gli aspetti più rovinosi e talora, purtroppo, anche tragici. In questa “epoca delle passioni tristi” «se le persone non trovano quello che desiderano, finiscono per desiderare quello che trovano» (M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2013, 63), e purtroppo, per ben che vada, quello che trovano sa spesso di banalità e di mediocrità.

È a partire da queste consapevolezze e riflessioni che, meditando il Cantico dei Cantici, mi sono reso conto che questo libro non parla solo di una coppia-simbolo del rapporto tra JHWH e Israele, non è un canto poetico-mistico sull’amore, ma racconta anche un’esperienza che molti di noi probabilmente vivono: l’esperienza liturgica. E l’indizio ce lo dà proprio l’esperienza del desiderio.

Secondo il Vangelo di Luca, prima di iniziare quella ultima Cena con la quale ha anticipato simbolicamente il senso della sua morte, che è il dono della vita, Gesù ha detto ai suoi discepoli: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,15). Nella traduzione latina di questo passo evangelico leggiamo un’espressione ancora più efficace: «Desiderio desideravi».

Quanto avrei voluto vedere gli occhi di Gesù mentre pronunciava queste parole! Chissà se lui o qualcuno dei discepoli aveva la pelle d’oca in quel momento,… In quella Cena, il cibo vero era proprio il Desiderio di Gesù di amare fino alla fine coloro che aveva davanti agli occhi, come anche coloro che rimanevano impermeabili a tanto amore (anche al traditore di quella notte, infatti, e ai traditori e indifferenti di ogni notte dell’umanità Gesù ha offerto e continua a offrire quel Cibo!).

Gesù rivela che quello che noi chiamiamo “Dio” è questo “folle” Desiderio di comunione, di vita condivisa nella pace e nella giustizia con chi si riconosce desiderato, cercato, amato e – proprio per questo – libero! Noi non eravamo presenti nel giardino dell’Eden, non c’eravamo nel giardino in cui questi innamorati vivevano le loro gioie e pene d’amore, non eravamo nel giardino del Gestsemani e nemmeno in quello della tomba vuota il mattino di Pasqua. Eppure, ogni volta che partecipiamo a una celebrazione liturgica noi entriamo nel giardino del desiderio di Cristo.

Il giardino nel quale noi possiamo fare esperienza dell’Amore e della sua salvezza è la Liturgia.
E tuttavia, mi chiedo molto onestamente se la liturgia – penso in particolare alla celebrazione dell’eucaristia – per come la celebriamo, sia ancora un giardino desiderabile, abitabile, godibile. Mi chiedo se quel desiderio di Gesù trovi la nostra pelle e il nostro corpo, le nostre menti, le nostre anime ancora disposte a lasciarsi attrarre da questo desiderio. L’impressione è che le modalità celebrative di tante nostre assemblee liturgiche si siano accontentate, per ben che vada, della ricerca di qualche parola saggia da parte di qualche prete un po’ più carismatico di altri. Ma la nostra pelle non è coinvolta. I nostri sensi sono quasi del tutto assopiti. La liturgia, che dovrebbe essere un’esperienza sensibile e intensa come quella narrata nel Cantico dei Cantici, rischia di essere una abitudine rituale il cui effetto sembra più simile a quello di un ansiolitico che a quello di un desiderio che divampa come il fuoco, come era quello di Gesù.

«Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia». Ecco con quali sensazioni ed emozioni, con quale desiderio dovrebbe essere vissuto il tratto di strada che i discepoli ancora oggi fanno dalle loro case al luogo in cui si radunano per celebrare il Signore! Ecco cosa dovrebbero essere le processioni di ingresso, di offertorio e di comunione con le quali la liturgia ci fa andare in cerca dell’Amato.

Vale oggi per il rito liturgico quello che si dice con un certo cinismo anche del matrimonio, che cioè è la “tomba dell’amore e della passione”, una abitudine che minaccia la spontaneità dei desideri umani. Questo è tristemente vero quando il rito – così come il matrimonio – viene separato dall’Evento che lo ha generato. Se nel rito io cerco un’idea intellettuale o la semplice soddisfazione morale di aver fatto il proprio dovere di coscienza religiosa, allora sicuramente il rito si svuota di senso e ben presto diventa una seccatura. Se nel rito mi lascio invece attirare dall’Evento che esso rende presente proprio mediante il corpo mio e degli altri, se ci gioco veramente la mia pelle, allora la noia della ritualità sarà l’ultimo dei nostri problemi: avremo infatti il cuore e la mente assorbiti da un Tu che ci viene incontro, sempre nuovo, sempre più reale. E a mostrarcelo sarà proprio il nostro corpo desiderante.

Punti cardinali del Cantico dei Cantici Primo punto. Il regime della luce: la primavera

Un rumore! Il mio amato! Eccolo, venire saltando sopra i monti,
balzando sopra le colline. 9Simile è il mio amato a una gazzella o a un cucciolo di cervo. Eccolo, ritto, dietro al nostro muro; occhieggia attraverso la finestra,
spia attraverso le grate. Parla il mio amato e dice: «Àlzati, mia compagna, mia incantevole, vieni via! 11Perché, ecco, l’inverno è passato, la pioggia è cessata, se n’è andata via; 12i fiori riappaiono sulla terra, giunge il tempo del canto della potatura e la voce della tortora si ode
nella nostra terra. 13 Il fico getta i suoi primaticci, e le viti in fiore esalano profumo.
Àlzati, mia compagna, mia incantevole, e vieni, via!
14O mia colomba, che sei nelle fenditure della roccia, nel segreto dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è affascinante».
15 Catturateci le volpi piccine che devastano le vigne in fiore.
16Il mio amato è mio e io sono sua; egli pascola fra i gigli.
17Prima che spiri la brezza del giorno e fuggano le ombre, volgiti, amato mio,
simile a gazzella o a cerbiatto, sopra i monti degli aromi.
Ctc 2,8-17

Le tue labbra stillano nettare, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti è come quello del Libano.
12Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata. 13I tuoi germogli sono un paradiso di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro e nardo, 14nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo,
con ogni specie di alberi d’incenso, mirra e àloe, con tutti gli aromi migliori.

15Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive che sgorgano dal Libano. 16Àlzati, vento del settentrione, vieni, vieni vento del meridione, soffia nel mio giardino, si effondano i suoi aromi. Venga l’amato mio nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti. 

Ctc 4,11-16

Il poema si compone di 1250 parole e il titolo Shir Hasshirim è una forma superlativa che significa Cantico per eccellenza, Cantico più bello, Cantico sublime. Questa espressione è dello stesso tipo di altre, ricorrenti nella Bibbia, quali «santo dei santi», «secoli dei secoli», «re dei re», «signore dei signori». Il Cantico celebra l’amore di due giovani, lo celebra nel suo primo fiorire e questo amore conosce tutta la gamma delle espressioni: i baci, le carezze, il desiderio d’incontro, le sofferenze per il raffreddamento delle relazioni, per la lontananza della persona amata, la ricerca, la gioia per il ritrovamento, le parole di amore scambiate in mezzo a una natura primaverile.

Entriamo nel regime della luce, nel regime solare. C’è una luce particolarmente filtrata che ci permette di individuare il cosmo del Cantico dei cantici. L’inverno è passato, i fiori sbocciano, i frutti maturano. C’è un paesaggio primaverile, stagione che nell’oriente dura pochissime settimane. È una stagione minima tra inverno e estate. È il momento della fragilità della bellezza, quanto dura poco.

La primavera è una stagione rarissima, delicata, fragile, eppure il Cantico dei cantici la usa come fondale di questo amore così forte e potente e vissuto. Eppure l’autore fa esplodere tutta la vegetazione: fiori, fichi, melagrane.
Questo ultimo frutto, la melagrana, ha immediatamente un significato di fecondità, la molteplicità dei figli, che è parte integrante della geografia dell’amore. Il regime della luce, il regime della primavera, debole e delicata, è un messaggio da raccogliere.

L’amato, l’uomo, è paragonato alla gazzella e al cucciolo di cervo. L’amato è agile e forte ma allo stesso tempo delicato e fragile, così come la primavera.
Ma poi questa fragilità è data anche dalle volpi che devastano la vigna. Nel regime della luce, c’è sempre in agguato la possibilità della fatica e del male. È sempre possibile che l’amore fragile e delicato possa trovare difficoltà.

Dall’altra parte la donna, la compagna mia, è paragonata alla colomba. La simbolica della colomba pare sia lo stemma di Israele, poi rappresenta la fedeltà, al tempo dell’accoppiamento il maschio va a far visita alla colomba e danza. Tra di loro c’è una sorta di tenerezza quando si nutrono fra di loro.
La natura, il regime della luce, l’armonia del cosmo, lo splendore della vegetazione e il gioco degli animali sono la rappresentazione simbolica, la parabola, dell’amore come armonia, come felicità interiore, come abbandono gioioso dell’incontro, anche se tutto può essere sottoposto a qualcosa che infranga, tutto è affidato a una realtà di sua natura delicata e fragile.

C’è tutta la forza dell’attrazione, del desiderio dell’intimità e dell’incontro e dall’altra parte la possibilità del fallimento, della debolezza, della fragilità.
L’amore è la primavera della vita. È ciò che illumina l’esistenza. La pioggia era una realtà oscura e pesante, ma poi con l’avvento della luce, dell’amore, tutto cambia. Questo avviene quando accade l’innamoramento tutto cambia, le stesse mansioni che si facevano prima vengono trasfigurati dall’amore, dal desiderio, dalla realizzazione dell’attrazione in intimità. L’uomo è veramente sé stesso quando ha un aiuto che gli stia di fronte, cioè quando ha qualcuno con cui comunicare. Qui la persona umana vive la sua pienezza. La natura diventa un transfert: guardando l’orizzonte, parlo di me stesso.

Secondo punto. Il regime della notte: l’inverno, la crisi

Io dormivo, ma veglia il mio cuore. Un rumore! È il mio amato che bussa:
«Aprimi, sorella mia, compagna mia, colomba mia, perfezione mia; perché il mio capo è coperto di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne». 3«Mi sono tolta la tunica; come indossarla di nuovo?
Mi sono lavata i piedi; come sporcarli di nuovo?». Il mio amato ha introdotto la mano nella fessura
e le mie viscere fremettero per lui. 5Mi sono alzata per aprire al mio amat e le mie mani stillavano mirra; fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello. 6Ho aperto allora all’amato mio, ma l’amato mio è sparito, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa; l’ho cercato, ma non l’ho trovato,
l’ho chiamato, ma non mi ha risposto. 7Mi hanno trovato le sentinelle che fanno la ronda in città;
mi hanno percossa, mi hanno ferita, mi hanno strappato lo scialle
le sentinelle delle mura. 8Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate l’amato mio che cosa gli racconterete? Che sono malata d’amore!
Ctc 5,2-8

Chi ama, ama sempre non solo quando è vigile. L’amore cambia l’identità profonda. Ma la donna ora vive l’esperienza della notte, del buio. È il tema fondamentale nella dialettica dell’amore, il tema del silenzio e dell’assenza. La donna si nega ma sente tutta la passione. Ad un tratto decide di alzarsi, la mirra è un balsamo tipicamente maschile, è il segno, il profumo lasciato dall’amato sul chiavistello ma l’amato non c’è più. Chiama e non risponde. La notte e il silenzio entrano con prepotenza nell’esperienza dell’amore. L’amore conosce la crisi. La crisi fa parte della storia dell’amore. L’amore comprende anche il timore e la paura, l’attrazione e la repulsione, la ricerca e la perdita.
La ricerca può diventare ansia, sofferenza, delusione che però non si dà per vinta, ma è descritta soprattutto come un gioco continuo: l’amato viene, chiama, ma poi non c’è all’incontro; allora è invocato, sfugge, si perde e alla fine l’amata lo trova e lo trattiene. Il ritrovamento suscita pace, gioia, entusiasmo, ma subito dopo avviene la perdita e questa suscita desiderio, domanda, implorazione. L’amore chiede assenza e presenza, nascondimento e ricerca, per aumentare la sorpresa e il gaudio.
Così è descritta la caratteristica più profonda dell’amore: non afferra mai totalmente il suo amato, non è mai sicuro e pacificato nel suo riposo per molto tempo, perché l’amore sfugge sempre, è più grande di noi, è libero, è divino. L’amore è nutrito di vagheggiamento e di sguardi. Anche le parole conclusive che la donna rivolge al suo amato sono un invito a correre, a fuggire, a mettersi in ricerca del corpo della sua amata: l’amore non finisce mai, non può essere posseduto una volta per tutte; l’amore ricomincia sempre, perché è gioia, è vita, rimanda sempre oltre, alla possibilità di sperimentare un amore più grande (Ct 8,14). Il Cantico non presenta, quindi, un cammino verso un’unione finale compiuta, non termina, come fanno molte favole, con una vita felice e contenta, perché l’unione sponsale è un punto di partenza sempre nuovo. Per questo nel Cantico del Cantici i momenti di amore felice e di pace sono piuttosto rari (Ct 1,15-17; 2,6; 6,3; 8,3).

Terzo punto cardinale. Il segno della corporeità

Quanto sei incantevole, compagna mia, quanto sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono come un gregge di capre,
che scendono dal monte Gàlaad. 2I tuoi denti come un gregge di pecore da tosare,
che risalgono dal bagno; sono tutte gemelle, nessuna di esse è isolata.
3Come nastro di porpora le tue labbra, la tua bocca è affascinante;
come spicchio di melagrana è la tua gota al di là il tuo velo. 4Il tuo collo è come la torre di Davide, costruita a strati perfetti. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di eroi.
5I tuoi due seni sono come due cuccioli, gemelli di gazzella, che pascolano tra i gigli.
6Prima che spiri la brezza del giorno e fuggano le ombre, me ne andrò sul monte della mirra e sul colle dell’incenso. 7Tutta incantevole sei tu, compagna mia, e in te non vi è difetto.
Ctc 4, 1-7

Nel mondo biblico il corpo e l’anima sono un unicum, non è un materiale pesante. Esiste la corporeità che è l’identità della persona e senza di essa non potremo relazionarci. Tutta la corporeità del Cantico è realistica e simbolica. Ecco perché nel Cantico è esaltata: incantevole, bella, affascinate. I ritratti dei corpi, ogni tratto, ogni lineamento della corporeità è un segno e rimanda alla terra promessa. Non sono solo corpi, ma sono mappe. Il corpo è comparato a quanto di più bello ci sia nell’esperienza di ciascuno. Esso diventa la rappresentazione della complessità dell’amore.

Il Cantico ci rivolge l’accorato appello a salvare il corpo e con il corpo salvare l’amore. Ci invita a chiederci quale volto, quale portamento ha assunto nel tempo il nostro modo di amare, riconoscendo che forse rispondere è difficile. Vivere la corporeità non è facile, perché è sempre in agguato un’adolescenza che non finisce mai
Nel corpo possiamo trovare tre elementi, tre nodi che compongono il mistero dell’amore.

Il primo è la sessualità, il Cantico dei cantici è carico della sessualità. C’è un rapporto con il corpo meno imbarazzato dal nostro che oscilla tra due estremi o l’ascesi (moralistica, impaurita) oppure la sessualità sfacciata, oggettuale, pornografica. Il Cantico dei cantici rappresenta la sessualità in modo pacato, come parte fondamentale della relazione perché fa parte dei dinamismi della natura. La sessualità è bella, misteriosa.

Il secondo è l’eros. L’eros è già un gradino ulteriore. La dimensione dell’eros che è poesia, scoperta della bellezza dell’altro, della tenerezza, del sentimento, della passione e questo lo può fare solo l’uomo. Ecco l’esperienza d’amore diventa un’esperienza affascinate, creativa, estetica. Ecco che la donna e l’uomo vengono descritti con forza, con passione. L’eros è via di comunicazione, di rivelazione reciproca, possibilità e bisogno di un reciproco riconoscimento dove il desiderio, la passione, la carne trovano nell’altro la possibilità di essere visto – io ti vedo – e riconosciuto pienamente.

L’eros, dunque, è intuizione. Nel Cantico dei cantici, la rappresentazione del corpo è fatta per pennellate, non è una descrizione fisiologica. C’è sempre qualcosa di bello. Ritorna la brezza del giorno, le ombre che fuggono, si giunge al monte. Il Cantico dei Cantici non è solo la rappresentazione di una conquista, il sesso è “conquista”, l’eros è qualcosa di più, perché è intuizione e contemplazione della bellezza dell’altro.

Il Cantico aiuta a stabilire un rapporto naturale col corpo, col sesso, con l’eros. Questo significa anzitutto rallegrarsi che ci sia la realtà dell’amore. Questo piacere, che è una delle più belle e potenti sensazioni che esistano, è un magnifico dono del Creatore. Guardiamo, ascoltiamo i due innamorati del Cantico, come si rallegrano ciascuno per il corpo dell’altro nella sua diversità, vediamo come si contemplano estasiati, dalla testa ai piedi, come anelano alle carezze e all’amplesso.

Il terzo nodo: l’amore. Sesso ed eros sono preziosi. L’amore dopo il sole, la notte, la bellezza del sesso, l’amore è un’esperienza di immersione, esperienza esistenziale personale dove l’io e lui dominano.

Intervento di Ilaria e Marco: percorsi del riconoscimento

MARCO: Una suora a me cara, oggi ultraottantenne, mi ha raccontato cosa le accadde quando era una giovane novizia. Erano gli anni che precedevano il Concilio Vaticano II, e la Bibbia era ancora chiusa sottochiave, non era a disposizione di chiunque volesse leggerla personalmente. Suor Angela però, dal carattere tosto, testarda e impetuosa nel suo entusiasmo giovanile già sintonizzato coi venti del Concilio, riuscì dopo tanta insistenza a farsi consegnare dalla superiora una copia della Bibbia da portarsi in camera. Tutta emozionata e desiderosa di tuffarsi nella lettura delle Scritture, arrivò nella sua stanza e cominciò a sfogliarla, ma si accorse subito che c’era qualcosa di strano. Nella parte centrale del volume c’erano un piccolo numero di pagine incollate le une sulle altre, e quindi impossibili da leggere. Era il Cantico dei Cantici. La sua zelante superiora si era premurata di preservare la giovane novizia dal pericoloso incontro con queste parole intensamente erotiche, passionali, insomma…svianti! Ma siccome più a un cuore bambino e genuino si vieta di fare una cosa, più quello farà di tutto per riuscire a farla, suor Angela si è messa con pazienza ed estrema delicatezza a scollare pagina dopo pagina riuscendo finalmente a leggere quelle pagine così “pericolose”, e a capire che la sua vocazione eraproprio quella di concedersi un innamoramento vero nei confronti di Gesù, di consacrargli in dono la vita.

ILARIA: I contenuti che don Vanio ci ha portato in questa seconda parte sono moltissimi e occorre per forza fare una selezione di ciò che ci sarebbe da dire sul versante psicologico!
Abbiamo visto che inizialmente, il mondo degli amanti è contrassegnato da illusioni, proiezioni, sogni e aspettative su una realtà distorta. Dopo poco tempo, da quando la coppia si è formata, cominciano a manifestarsi sempre più forti le differenze fra i due partner. Nascono le prime avvisaglie del “Non sono d’accordo“, “Io vorrei qualcos’altro“. Ognuno inizia ad esprimere la propria personalità: valori, convinzioni, pensieri, sentimenti e desideri cominciano ad essere confrontati andando incontro ad eventuali scontri. Rispetto all’innamoramento, dove c’era totale fusione, adesso si ristabiliscono i confini fra sé e l’altro e si definiscono chiare aree di differenza. Il distanziamento e l’allontanamento cominciano a prendere forma e oltre al “NOI”, si inizia a pensare e a parlare in termini di “IO” e “TU” entrando in una fase nuova e diversa descritta come “Stadio della Differenziazione”. Quello che era stato vissuto come un paradiso terrestre, si sta rivelando per quello che è, ed ha luogo il “risveglio”. Ma del resto, come scriveva lo psichiatra Paolo Menghi, quale persona si impegnerebbe in una relazione, affrontando confronti e scontri, se non avesse prima creduto in un “paradiso gratis”, se non avesse prima sentito quell’”enorme desiderio” dell’altro? Nel momento del risveglio, gli occhi spalancati si accorgono ora del “non-bello” che la relazione e l’altro portano con sé e si incontra la prima crisi: muoiono le illusioni, le aspettative, il desiderio di vedere e cogliere solo ed esclusivamente il bello trovandosi bruscamente di fronte a qualcuno di diverso e, per certi aspetti, nuovo. La prima reazione spontanea sarebbe quella di fuggire, di evadere, scappare dal non-positivo, o «non-bello», che nella prospettiva junghiana è rappresentato dall’archetipo dell’Ombra che contiene ciò che di sé si nasconde,ovvero le inadeguatezze, i nodi e le fragilità, i dolori e le ferite del cuore e dell’anima, i lati poco attraenti, cheimbarazzano, le piccole “paranoie” e “manie” di ognuno. Lo scontro con la realtà avviene, e avviene perché il tempo passa, perché le situazioni e le esperienze condivise aumentano e i due individui vengono visti con occhi meno sognanti e più radicati e terrestri.

In questo momento, le illusioni che si erano create sull’altro e sulla relazione con l’altro, fanno i conti con la realtà e questa fase spesso è sentita come pericolosa dai due innamorati che possono sentire forte la paura di perdere l’altro; è anche sulla scia di questo vissuto che a volte in questa fase si rischia di fare scelte affrettate e vincolanti, come il matrimonio, l’avere dei figli, l’acquisto condiviso di una casa, o in generale tutte quelle scelte che richiederebbero una buona consapevolezza e sicurezza della relazione con l’altro. È molto probabile che la coppia non sia in grado di reggere a quelle nuove responsabilità senza aver fatto prima i conti con la realtà dell’altro e della coppia ed è per questo che torno a sottolineare quanto il fattore Tempo nella costruzione di una relazione sia fondamentale. Lasciare che il tempo trascorra, che levighi le pietre, che smussi quell’illusorietà iniziale per arrivare al nucleo vivo di sé e dell’altro. L’obiettivo della fase di differenziazione sta nell’accettare la realtà: se questa viene attraversata con successo, permetterà di sviluppare un profondo senso di cooperazione e di intimità che porterà i partner a sincronizzare le differenze vivendole come arricchenti e non come motivo di divisione. Più due persone sono solide più sarà rapido il superamento di questa fase. Alcuni partner non vogliono passare a questa fase perché nella prima fase, quella sognante, non bisogna faticare, mentre in questa seconda viene richiesto inconsciamente di cominciare a scegliere.

Ciò che avviene in questo momento della storia di coppia potrà essere indicativo del futuro della coppia. Infatti, ci sono due processi che i due individui potrebbero sperimentare e che condurranno o alla rottura della relazione oppure alla costruzione di una relazione buona e funzionale, per entrambi. Questi processi sono detti della DELUSIONE e della DISILLUSIONE. Vediamoli insieme. Se nell’innamoramento io scelgo l’altro per come io penso lui sia, nel processo di delusione sento che l’altro mi ha deluso così tanto, in quel passaggio dalla proiezione sognante alla realtà, da non essere in grado di accettarlo con e nelle sue differenze. Definisco questa fase come “Fase della cantonata”, ovvero mi ero fatto un’idea dell’altro e conoscendolo mi sono accorto, mi sono accorta, che non è come pensavo. A volte ci si può sentire addirittura ingannati dall’altro. È chiaro che la delusione non porta la coppia al passaggio dall’innamoramento all’amore ma, in quelle scelte veloci di cui parlavo prima, alla delusione si rischia di arrivarci dopo poco tempo da un matrimonio imbastito velocemente o dopo un figlio “capitato per sbaglio”, o comunque inatteso perché troppo presto rispetto alla costruzione della solidità di coppia.

Ma quindi, vi domanderete, quand’è che la coppia riesce a passare dall’innamoramento all’amore? Ovvero da quella ricerca reciproca e sognante, descritta dal Cantico dei Cantici, dei due innamorati, alla crisi legata alla differenziazione di ognuno nel fare i conti con la realtà, per giungere infine alla scelta e all’impegno reciproco? Per arrivare a questo la coppia attraversa il processo della disillusione, ovvero: Ho

che è per certi aspetti diversa dalle fantasie che su di lei avevo e alla fantasia condivisa con il partner subentrerà invece una realtà condivisa, data appunto dal rapporto d’amore tra le due persone.

capito che mi ero illuso, ho avuto troppe aspettative, ma guardo ora te, tutto, tutta te, con le tue Ombre, i tuoi lati che non mi piacciono e a volte mi danno addirittura fastidio, ma amo te, e scelgo te, perché sei tu, esattamente tu. Non siamo più quindi nel “scelgo l’altro per come io penso lui sia”, ma “scelgo l’altro per come l’altro è veramente”. Inizio ad amare quindi la realtà di una persona Solo un ultimo appunto riguardo la sessualità, che emerge così bella e ricca nel Cantico dei Cantici e che, proprio per questo, non voglio e non posso tralasciare. È un paradosso che, considerandoci fatti di carne, da un lato, e di spirito, mente, cuore ed emozioni dall’altro, l’aspetto della sessualità e del corpo fisico e sessuale sia stato bollato come qualcosa di non tollerabile, non digeribile, tanto da dover essere “cancellato”, eluso alla vista (pensiamo a quelle pagine della Bibbia incollate fra loro) al contrario delle filosofie orientali che vedono, proprio nella sessualità, uno dei mezzi più alti e spirituali di connessione con la dimensione divina.

La sessualità è uno tra gli aspetti fondamentali qualificanti la relazione coniugale ed è ciò che la contraddistingue nettamente dalle relazioni con le altre generazioni (il rapporto con la generazione dei genitori e quella dei figli) e con le altre figure di pari, come amici e colleghi ed è così importante che un matrimonio in cui i coniugi non hanno avuto un rapporto sessuale completo può pregiudicare il destino stesso del Sacramento, venendo riconosciuto dalla Sacra Rota come nullo e sciogliendo così i coniugi dai diritti e dagli obblighi contratti in precedenza. Ma la questione della sessualità non va vista tanto nell’ottica di un mero dovere da assolvere come buona moglie e buon marito, anzi. Il potere della sessualità condivisa, ovvero di quel momento in cui la coppia si ritrova non solo con il pensiero ma anche con la sacralità del proprio corpo, che è il Tempio che ci contiene e protegge, sta nel fatto che, come scrivono lo psicoterapeuta Vella e lopsichiatra Solfaroli Camillocci “il piacere che la coppia si procura ha un valore di alimento e di sostegno dell’allenza coniugale divenendone motore e verifica” per cui diventa “alimento della loro relazione anche nelle altre aree, una sorta di rinnovo del patto che li unisce” così come, per contro, la conflittualità in altre dimensioni della vita di coppia può a sua volta inibire il piacere sessuale. Nel percorso di storia della vita di coppia alla passionalità dei primi tempi emergerà progressivamente un altro sentimento ovvero la tenerezza resa manifesta nella quotidianità attraverso sguardi complici, carezze delicate, sorrisi d’intesa. Ecco che il corpo e la relazione tra i corpi resta nel tempo e rimane presente come prezioso alimento continuo e conferma di quell’alleanza che, per rimanere nel tempo, come abbiamo visto, è stata capace di attraversare le più forti intemperie.

MARCO: “Riconoscere e riconoscersi”: questo è il processo a cui ci conduce il sano movimento di illusione e disillusione dell’amore. Quello del reciproco riconoscimento è quel percorso che ci consente di incontrare non solo l’altro nella sua realtà, ma anche noi stessi nell’altro. Un incontro che avviene ad un livello di intimità antropologicamente segnato dalla parola e dal corpo.

Parola e Corpo: non è forse la dinamica fondamentale della celebrazione eucaristica?

La Parola, anzitutto.
Ogni volta che la Scrittura viene proclamata nella liturgia noi siamo come suor Angela: destinatari di una Parola rivolta proprio a noi, al “qui e ora” della nostra vita personale e comunitaria. Siamo invitati a entrare in un dialogo vivo, che nel rito è strutturato secondo una sequenza di testi e risposte e modulazioni di voce e riti essenziali (alzarsi, sedersi, portare e baciare il libro, tracciare dei segni sulla pelle…), ma che è offerto perché continui come preghiera nella vita che va oltre il rito e così tutta la vita diventi liturgia, azione di riconoscimento reciproco nell’amore.
La Liturgia della Parola è una scuola di relazione in cui il silenzio, l’ascolto, il prendere la parola si fanno azioni che permettono a ciascuno di noi e al “noi” comunitario di sentirci riconosciuti nella nostra identità e, a nostra volta, di riconoscere il Signore presente nella nostra vita proprio come Parola che ci viene rivolta per consolare, incoraggiare, orientare, correggere, adorare.
Come fanno i due amanti del Cantico, che si descrivono con immagini cariche di sensualità rispettosamente riconoscente, così accade ogni volta che ci mettiamo in ascolto della Parola: ci mettiamo davanti allo sguardo di un Dio innamorato che ci vede molto più belli di quello che pensiamo di essere, anche quando la sua parola ci sferza e corregge, affinché anche noi possiamo ritrovare le tracce della sua Bellezza e della sua Giustizia in quello che siamo chiamati a diventare, crescendo «fino alla misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13)

E poi il Corpo. Uno dei maggiori liturgisti italiani un giorno disse una cosa quasi scandalorsa: «la Messa (possiamo dire tutta la liturgia, ndr) è il momento erotico dell’incontro tra Dio e gli uomini». È vero: la celebrazione eucaristica è Dio che fa l’amore con l’assemblea, è il coinvolgimento intimo nella nudità del corpo crocifisso e risorto di Gesù di Nazareth (realmente presente nell’assemblea radunata, nella Parola proclamata, nei ministri e in maniera del tutto speciale nelle specie eucaristiche), che si unisce al corpo della sua Sposa che è la Chiesa per generare l’unico Corpo mistico di Cristo. «Prendete, mangiate! Questo è il mio Corpo dato per voi!….Fate questo …. perché diventiamo un solo corpo e un solo spirito». Direi che sono parole inequivocabili. Avrebbe potuto pronunciarle l’amato del Cantico alla sua innamorata. Eppure, nel corso della storia abbiamo come disinnescato la potenza erotica e amorosa di queste parole e di questi gesti liturgici con una sorta di “preservativo” fatto di una spiritualità disincarnata, che ci ha illuso di poter fare esperienza del Signore (incarnato in un corpo e risorto nel corpo!) … senza il nostro corpo! Per fortuna – o per grazia? – la liturgia ha custodito sotto la cenere della brace ancora accesa, la possibilità ancora vera di incontrare il Signore nel suo vero corpo, e di lasciarci trasformare nel suo stesso corpo donato per la salvezza di tutti.

Il sigillo sul cuore

6Ponimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è amore, inesorabile come gli inferi è la gelosia: le sue scintille sono scintille ardenti, una fiamma divina!
7Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi sommergerlo. Se un uomo offrisse tutta la ricchezza della sua casa
in cambio dell’amore, otterrebbe solo disprezzo.
Ctc 8, 6-7

Quarto punto cardinale. L’amore

Amore e morte. Gli inferi e la gelosia. Le grandi acque che sono simbolo del caos, del male, del nulla… questacontrapposizione è presente nel mondo greco: amore e morte.
Il Cantico dei Cantici dice che chi possiede l’amore riesce a fermare la morte, anzi è una fiamma divina. Una curiosità, nel Cantico non appare mai il nome di Dio, appare solo qui nella fiamma di Ya, fiamma del Signore, o fiamma fortissima. Alla morte si contrappone Dio che è il simbolo della vita. Possiamo affermare che chi ha l’amore, ha una scintilla divina, ha un segno di trascendenza. Quando si ama, la morte è bloccata. Quando si ama, l’amore trascende dolore, la morte stessa. È una fiamma che supera la caducità, il tempo e lo spazio.

La persona è realtà di amore.
La donna, protagonista del Cantico, al vertice del suo amore esclama: «Ponimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio» (Ct 8,6). È uno dei più celebri versetti del Cantico. Qui abbiamo il trionfo dell’amore coniugale. La coppia è finalmente unita, ma ha bisogno di un continuo compimento, espresso con l’immagine del sigillo.
Il sigillo, in oriente era un cilindro di solito, tutto inciso, che si poteva far girare sulla creta in modo tale da firmare un documento, da autenticarlo. Si portava con un bracciale o con un pendaglio, come una collana. Il sigillo era la carta di identità della persona, il segno della sua realtà giuridica, efficace. Esso veniva portato con una catenella al collo, e quindi batteva sul petto, oppure era inserito in un bracciale, oppure era portato al dito (Gen 38,18; 41,42; Ger 22,24). Metterlo sul cuore è inusuale. Il cuore per la Bibbia è il luogo della volontà, del progettare, della coscienza, del ragionare; in una parola è la sede della libertà. La sposa dice al suo amato: «Tu devi porre me come tuo sigillo», «sono io che do l’identità a te e viceversa». La sposa supplica lo sposo di considerarla tutta e sempre sua, perché lei, a somiglianza del sigillo che lo sposo ha sul cuore, sede dei pensieri e degli affetti, e sul braccio, simbolo dell’azione, della forza, vuole pensare e agire come pensa e agisce lui, vuole che lui pensi e agisca tenendo presente lei.

La donna vuole essere il sigillo che autentica il cuore di lui, il braccio di lui, vuole che pensiero e azione siano uno scambio reciproco. Niente nella vita dei due potrà essere progettato o attuato senza l’autenticazione che proviene dalla persona amata. Ogni divisione o separazione sarà impossibile; la sposa vuole essere come un timbro, un marchio a fuoco sul braccio e sul cuore dello sposo: vuole essere inseparabile da lui, una sola carne con lui. Nell’amore la coppia realizza la propria identità piena. L’uomo è un io ad extra, per la Bibbia non è una stanza blindata, ma una soglia aperta.

Ancora la donna dice in 1,13 Il mio amato è per me un sacchetto di mirra, che pernotta tra i miei seni. Cosa rappresenta il sacchetto di mirra? È il parallelo del sigillo. La donna in oriente portava un sacchetto al petto con all’interno un impasto di aromi che lei sceglieva, un profumo che le piaceva e la rappresentava. La donna ha costituito il suo sacchetto di mirra che dice la sua identità. La donna dice tu sei il mio profumo, sei tu che dai pienezza alla mia identità. L’amore è donazione reciproca, fino al punto tale da far cadere il velo tra io e tu. Questo è il vertice supremo a cui giunge l’amore autentico oltre la sessualità e l’eros che sono necessari e umani solo in quanto sono intrecciati fra di loro dall’amore stesso.

L’amore, così, supera la veemenza della morte, ha l’ardore del fulmine che nessuno riesce a spegnere. L’amore è come la roccia contro cui si infrange la forza dei fiumi avversi. Per questo riesce a vincere le grandi acque e la morte, cioè ogni avversità. In questa luce riusciamo a capire che la relazione dell’amore è veramente la relazione della totalità, della pienezza.

L’amore dei due amanti non potrà essere spento: al termine del Cantico l’unione si fa dunque definitiva, l’impegno è per tutta la vita, per sempre.

Intervento Ilaria e Marco: Percorsi dell’impegno

MARCO: «Ma voi non finite mai di sposarvi?!». Ce lo hanno chiesto simpaticamente e provocatoriamente varie volte amici e parenti. Il motivo di questa domanda è che Ilaria ed io ci siamo vestiti da sposi per 4 volte in un anno: per il matrimonio civile, per quello in chiesa, poi per un rito di rinnovo delle promesse in viaggio di nozze e infine per l’incontro con Papa Francesco lo scorso 28 dicembre. 4 volte in un anno. Niente male. Comprensibile che qualcuno ci abbia chiesto conto di questa nostra ripetuta vestizione. Ci è capitato di rispondere: «non riusciamo più a smettere di sposarci… abbiamo preso il vizio purtroppo…». Ma al di là dell’ironia, questa cosa ci ha fatto pensare e ci siamo chiesti: qual è il vestito nuziale che non dobbiamo mai smettere di indossare se vogliamo rimanere nell’Amore che ci ha consacrati?

ILARIA: Quanto sarebbe bello credere davvero che una volta messo quel “sigillo sul tuo cuore e sul tuo braccio” l’unione e l’impegno saranno dunque per sempre! E invece qui viene la parte complessa e difficile, quella che va oltre le parole e fa i conti con la realtà vera delle scelte di vita, che si tratti della vocazione matrimoniale quanto di qualsiasi altra. Quanto sono disposto a giocare di me in questa scelta? Quanto vale quel sigillo, quel per sempre che ho dichiarato?

Se l’Amore riesce a rimanere in piedi nel tempo non è certo per una semplice scelta “di cuore” ma per un impegno quotidianamente assunto.

Come ricorda la psicoanalista junghiana Pinkola Estés, non si può non pensare anche all’esistenza di persone “innamorate dell’innamoramento”, quelle che nel momento in cui viene richiesto loro di passare dalla fase dell’illusione alla naturale fase della disillusione, fuggono alla ricerca di una nuova fiamma, bella, perfetta, ideale, e che, ricreando una relazione fra un IO e un Io riflesso in un Tu distorto e non fra un IO e un TU, non invita a mettersi in gioco diventando, così, “maturi”.

Prima di tutto, a livello psicologico è necessario che quel processo di disillusione descritto precedentemente, che porta i partner a scegliersi dopo la fase dell’innamoramento, non vada a cancellare il sogno di coppia, il “paradiso terrestre” sul quale avevamo creduto e scommesso. La coppia, infatti, ha un bisogno vitale di creare, sostenere e mantenere anche un’illusione condivisa che, se nella prima fase di conoscenza della coppia ha l’obiettivo di avviare e consolidare il rapporto, questa rimane imprescindibile anche nelle fasi del passaggio alla genitorialità e del ritorno alla coppia, una volta cresciuti i figli e usciti dal nido familiare. L’illusione condivisa è la lampada sempre accesa, per richiamare la parabola evangelica delle vergini stolte e delle vergini sagge.

In secondo luogo, oltre alla realtà condivisa e all’illusione condivisa, vi è un terzo elemento che nell’innamoramento non è presente, e che in questo momento acquista invece la sua centralità ovvero l’accettazione, non solo della realtà condivisa ma anche di una parte di realtà che non si condivide, che è diversa dalla propria. A tal proposito, quando ci siamo sposati, Marco mi disse: “Ti sposo non solo per ciò che già conosco di te ma anche per tutto quello ancora di te non so” ed è ciò che lo psicoanalista Gianoukulas, scriveva rispetto all’Amore, in cui “si comincia ad accettare e a rispettare, oltre che semplicemente a “tollerare”, quella che potrebbe essere, nell’altro, una realtà diversa dalla propria; e la si accetta, senza che essa sia sentita come “minacciosa” per il Sé e per il rapporto, come può invece facilmente avvenirenell’innamoramento”. Si comincia a tollerare ciò che è differente, estraneo, non familiare e a volte lo si può persino celebrare, come dire “non lo condivido, è suo, però mi piace: non me ne sento minacciato”. Tale riconoscimento e accettazione del diverso fa sì che la fusione dell’innamoramento sia invece superata dalla consapevolezza del riconoscersi e amarsi in quanto diversi per cui non si è un tutt’uno fuso e confuso ma due entità diverse che si scelgono e insieme stanno, e dove “qui finisce la mia pelle, qui comincia la tua pelle”. Sei tu, non sono io… e così io ti scelgo, e così io ti amo.

Ripescando le fasi della costruzione della coppia, l’ingrediente dell’accettazione prende il suo posto nella fase chiamata “del Riavvicinamento” in cui i due partner sono pronti a ritornare nella relazione con un senso di sé e della relazione molto più forte di quando erano nell’innamoramento, perché ora sono venute meno la paura della vulnerabilità e della non accettazione da parte dell’altro. La coppia ha maggiore calma nel negoziare i propri spazi e le proprie realtà, si stabilizza, trova un equilibrio tra l’IO e il NOI per cui l’IO non si perde nel NOI, come è invece nella simbiosi, e nemmeno si ha il bisogno impellente di distinguersi e di trovare i propri spazi, come era nella fase della differenziazione. Questo significa concretamente che la coppia inizia a sviluppare la capacità di impegnarsi costantemente, anche quando si è in disaccordo e cresce in entrambi la soglia di tolleranza delle tensioni nella coppia. Nel riavvicinamento i due partner danzano insieme tra desideri e paure. Nell’ultima fase della costruzione della coppia, quella “dell’interdipendenza”, l’IO e il TU sono ora due mondi “insieme”. Il perfetto e ideale è riconciliato con il reale: è la piena intesa (mentre nella simbiosi il perfetto nonconciliato con il reale dà vita ad un “perfetto immaginato illusorio”). Nella prima fase i due partner ancora non si conoscevano pienamente. Nel passaggio evolutivo di coppia, i due hanno integrato le diverse individualità e sviluppato strategie per con-vivere insieme. Nell’Interdipendenza, i due si conoscono pienamente e rispondono con rispetto e sensibilità ai propri e altrui bisogni e desideri.

Nella configurazione di un rapporto di coppia maturo c’è chi, come lo psicologo R. Stenberg, ha teorizzato la necessaria presenza dell’equilibrio fra tre elementi fondamentali, ossia la Passione, l’Intimità e l’Impegno, che vanno a configurare il “Triangolo dell’Amore”. La Passione viene vista come “il grado di condivisione e di vicinanza vissute nel rapporto, che scaturisce dall’intimità e dalla convergenza degli interessi individuali”. Nell’intimità rientrano invece la confidenza, l’unione, la comprensione, la fiducia e stima reciproche, la complicità e tutto ciò che porta i partner ad avvicinarsi e ad esplorarsi nelle reciproche differenze e similarità. Si è intimi, infatti, quando si sente di poter esprimere liberamente le proprie emozioni, qualunque sia la loro intensità, quando si sente di poter far affidamento sull’altro e quando si ha il desiderio di alimentare il benessere del partner e di sentirsi felici con lui. Invece l’Impegno ha a che fare con l’insieme di conoscenze, affetti e comportamenti che segnalano la disposizione dell’individuo a proseguire in una determinata progettualità. Per Stenberg questi sono i tre ingredienti che sintetizzano l’amore “completo” e che potrebbero essere raffigurati come gli angoli di un triangolo equilatero. Infatti, qualora questi tre elementi non fossero in equilibrio, si possono realizzare diverse tipologie di relazione come, per citarne qualche esempio, l’infatuazione o colpo di fulmine, in cui c’è passione ma mancano ancora l’intimità (perché non ci si conosce abbastanza) e l’impegno; l’amore vuoto, ovvero quando si vive una relazione di facciata, fatta di cene fuori, di impegni in famiglia, di sorrisi con i parenti, ma nella coppia c’è il vuoto. In questo tipo di relazione, dei tre ingredienti sopra elencati c’è solo l’impegno. Passione e Intimità non esistono. Ci si dice di “stare insieme per i figli, per la società, per comodità”, appunto, per il solo ed esclusivo progetto. Un altro esempio di relazione sbilanciata è quella del sodalizio d’amore: ci sono intimità e impegno ma la passione è assente. Ricordate quando prima ho accennato all’importanza della sessualità? Ecco, la passione è il pepe che stimola e tiene accesa la relazione, che la erotizza, che la rende speciale, unica. Se manca la passione nella coppia, si può rimanere a guardare film sul divano, mangiando i popcorn e abbracciandosi, stretti l’uno all’altra. Può essere sicuramente un quadro piacevole ma rispetto alla relazione di simpatia (quella che c’è fra due fratelli o amici) nella quale c’è solo l’intimità, qui si aggiunge l’impegno per cui il rapporto ha una base più solida, ma non comunque sufficiente per essere considerato amore completo.

Per Stenberg, il rapporto di coppia per durare e migliorare nel tempo ha bisogno però che ad ogni ingrediente del triangolo dell’amore corrispondano anche le azioni, e non solo i pensieri. E quindi c’è Passione quando si mantengono il contatto fisico (carezze, baci, abbracci) e la sessualità. Passione è anche entusiasmo, trasporto, gioco, variazione, tutto ciò che spezza la monotonia della routine, è qualcosa che brucia, che fa sentire ancora vivi! C’è intimità quando si continua nel tempo a comunicare le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri vissuti interni; quando ci si sostiene e supporta, quando si condividono cose, spazi, momenti di vita. E c’è Impegno quando si decide di formalizzare la propria storia non vivendola solo “nel tempo libero”; impegnarsi significa fidanzarsi, convivere o sposarsi, essere fedeli, unirsi nei momenti di crisi per superare le difficoltà di coppia in coppia.

E quando passano gli anni? Con il passare degli anni insieme, nel corso della convivenza o del matrimonio, Stenberg ha poi indicato alcuni fattori che diventano più rilevanti, rispetto ai tre ingredienti dell’intimità, della passione e dell’impegno. Questi sono: la disponibilità a cambiare in funzione delle esigenze del partner, ovvero a smussare i rispettivi angoli; la disponibilità ad accettare le imperfezioni dell’altro; è naturale, per stare insieme serenamente nel tempo, accettare le rispettive fragilità; la comunanza di valori, specie quelli religiosi: non è vero che “gli opposti si attraggono”, men che meno se si tratta di valori. La “disponibilità” è quindi la parola chiave di questi tre aspetti. Disponibilità non equivale a “facilità”, di cambiare o accettare qualcosa, ma disposizione interna a mettersi in discussione, flessibilità a lasciarsi plasmare dalla e nella relazione.

Le relazioni più belle e più profonde, infatti, sono quelle dove diamo a noi stessi e all’altro la possibilità di cambiare, di migliorare ed evolvere.
Un ultimo elemento, fondamentale in una coppia che funziona bene e che dura nel tempo, è che i partner garantiscano l’uno all’altra il diritto al soddisfacimento reciproco delle esigenze fisiche, mentali, affettive… spirituali.

Cosa può essere quindi l’Amore Vero? Ci si interroga da sempre su questo tema e si continuerà a farlo e nonostante questo non si giungerà mai a una definizione reale che possa connotare il più alto livello d’amore e dare così delle indicazioni per poterlo realizzare con sicurezza. Senza dubbio però si può parlare di amore “maturo” perché è sempre il frutto di un percorso di crescita fisica, psicologica e spirituale.

Credo che questi tre miei interventi non possano che concludersi con le parole di Victor Frankl: «Amare significa non solo vedere il partner nel suo essere così e non diversamente da così, ma vedere in lui qualcosa di più: le sue possibilità di divenire, il suo poter essere; significa non solo vederlo per quello che veramente è, ma soprattutto per quello che lei o lui può e deve diventare. In altre parole, secondo una bella espressione di Dostoevskij: amare significa “vedere l’altro così come Dio l’ha ideato» (Victor E. Frankl cit. in La coppia nel suo divenire: nascita, crescita, fine o ridefinizione di una relazione sentimentale).

MARCO: «Rimanete nel mio amore». Per il nostro matrimonio abbiamo scelto il testo evangelico in cui Gesù esorta i suoi a rimanere nel suo amore. Rimanere non è un verbo statico, non presta il fianco alla pigrizia, alla sedentarietà, alla passività. Rimanere è quanto di più dinamico possa esserci nella vita, perché richiede impegno, motivazione, equilibrio, radicamento della scelta, voglia di crescere. In un tempo in cui tutto cambia velocemente, e anche le nostre vite sono strattonate qua e là da tanti stimoli, tante possibilità, scegliere di rimanere è un’arte da imparare. La liturgia è una scuola importante, se vissuta secondo la prospettiva della partecipazione attiva. Questa espressione, usata per la prima volta da Papa Pio X, è diventata nello scorso secolo la chiave di accesso per la comprensione di ciò che la liturgia rappresenta nella vita dei discepoli del Signore. Il Vaticano II ha utilizzato questo criterio per impostare una riforma dei riti che permettesse ai partecipanti di non essere muti spettatori di un tran tran rituale, ma di essere coinvolti con tutto se stessi, con i sensi, con le emozioni, con i gesti e gli altri linguaggi verbali e non verbali nella celebrazione liturgica. Solo così la liturgia è capace di generare un impegno rinnovato nella quotidianità delle nostre vite, delle nostre attività professionali e sociali, nelle nostre scelte di stare dalla parte della verità e della giustizia, invece che da quella della menzogna e delle umiliazioni.

La liturgia è, all’apparenza, un rito ripetitivo. Ogni domenica – per chi ci va – la Messa avviene più o meno sempre con la stessa sequenza di cose. Il rito per sua natura è ripetitivo: il che ci mette davanti a un bivio: o lo subiamo stancamente e, a un certo punto, lo abbandoniamo. Oppure ci apriamo alla sua forza interna, che è la relazione d’amore da cui il rito nasce. Anche la vita di coppia e famigliare ha una sua ritualità quotidiana, festiva, stagionale e annuale. Ci sono abitudini che svuotano le relazioni e la vita. Ma se le abitudini vengono indossate per quello che realmente sono, abiti nuziali, allora ci permettono di celebrare l’amore che ci lega e, così facendo, di rinnovarne la promessa e aprirci alla sua fecondità.

Nella liturgia del matrimonio gli sposi, sigillandosi l’uno nel cuore dell’altra, non si promettono amore per sempre”, ma semmai promettono di amarsi “tutti i giorni della vita”. È come dire: tu da oggi sarai la mia liturgia quotidiana, il mio rito da celebrare ogni giorno, la relazione che merita ogni giorno che io vesta l’abito nuziale. Ecco perché il Matrimonio è immagine dell’amore tra Cristo e la Chiesa, come afferma san Paolo (cf. Ef 5,32). Ecco perché la liturgia è ripetitiva: perché vuole educarci a rimanere nell’amore. Ma entrarci con l’abito nuziale o senza fa la differenza. Perché se ci entriamo senza ne usciremo stanchi e lamentosi o, al massimo, con la coscienza apposto. Entrarci con l’abito nuziale, significa uscirne con un compito: quello di tornare a casa, al lavoro, nelle nostre città, nel mondo digitale, ovunque andiamo, per dedicare ogni nostra energia al “regno di Dio”, ossia a quella giustizia e a quella pace che nascono dall’amore che abbiamo fatto celebrando le nozze sempre nuove della Sposa con il suo Sposo.

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