Incute timore e forza. Giobbe

Fuori dai bordi, per una grammatica dell’esistenza


Video della prima parte della serata

Introduzione

Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, 

timorato di Dio e lontano dal male. 

Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, 

cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. 

Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’oriente.

Giobbe 1,1-3

Incute timore e forza. Questa sera cercheremo di sostare su queste tre parole e saremo aiutati dalla musica, dalle parole e dalla Parola e dall’amico Giobbe.  Prima ancora di cominciare la nostra riflessione, vi lascio sullo sfondo della vostra mente e cuore un’immagine: la montagna, quella rocciosa, il monte Pelmo, le tre Cime di Lavaredo, il monte Civetta. Queste vette che salgono al cielo e prendono il suo colore.  Queste montagne a mio parere racchiudono bene questo titolo. Quando si giunge a certe altezze e si intraprende un sentiero sorge nel cuore, almeno in me, timore e forza. Cercheremo di compiere un viaggio. Percorreremo un sentiero di montagna. Commineremo insieme e vi accompagneremo nell’ascolto delle vostre emozioni, soprattutto facendo memoria di tutte le volte in cui nella nostra vita abbiamo fatto esperienza del timore e della forza. Saranno queste, infatti, le emozioni che approfondiremo. Ecco perché la nostra guida maestra sarà l’amico Giobbe lui che attraverso il timore e la forza è cresciuto nell’amore per Dio e per il creato nonostante tutto e attraverso tutto quello che ha subito e vissuto e ha trovato la risposta alla grande domanda: il perchè del male, del dolore innocente? 

Prima parola: Incute

Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. 8Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. 9Allora sua moglie disse: «Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!». 10Ma egli le rispose: «Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?». In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

Giobbe 2,7-10

Incute… pelle come via delle emozioni

Incutere nel senso autentico del termine significa scuotere dentro, smuovere il mondo interiore, forzare. Quindi nel senso di suscitare, far nascere un determinato sentimento, un’emozione, un ricordo, un pensiero. Questo verbo contiene l’idea di agire con forza, con una certa imposizione.

Ma cosa unisce la parola incute con l’esperienza di Giobbe? Se “giochiamo” con la parola incute e la dividiamo in due ci ritroviamo con IN – CUTE, nella cute, dentro la pelle, sotto la pelle. Ecco perché ho scelto questa parola per il titolo e perché Giobbe. 

Giobbe, infatti, tra le tante cose, ha subito una malattia della pelle che lo ha debilitato, reso inavvicinabile, dolorante. Una malattia che gli impedisce di mettersi in relazione con gli altri, con Dio e anche con sé stesso. Una malattia così dolorosa da impazzire, apparentemente superficiale, ma che rivela un malessere più grande, più profondo, interiore. In Giobbe la pelle diventa spazio di rivelazione e di protesta, di timore e di forza, di chiusura e desiderio di uscirne fuori. 

Incute, nella pelle, di Giobbe emerge la potenza del suo grido fisico verso il creato e verso Dio e nonostante tutto questo, egli rimane, accetta quello che gli accade come volere di Dio e non maledice, ma continua a dire bene, a fidarsi, ad affidarsi. 

Mi piace pensare che nella cute, sulla nostra pelle, c’è tutto quello che viviamo. Lì emergono le nostre emozioni, come il timore e la forza.  Sulla pelle accadono le cose e questo accadere delle cose trasforma le nostre capacità, il nostro modo di percepire quello che ci sta attorno. Essa è la prima soglia che ci pone in contatto con la realtà. È la superficie su cui tutto atterra. 

La nostra pelle ci definisce, ci distingue, ci protegge, ci rivela. Dove la mia epidermide finisce, lì iniziano il resto del mondo e le infinite altre epidermidi che lo abitano.  Nella pelle, cute, c’è timore e forza, paura e coraggio. La pelle è difesa e affermazione. 

La terra è la pelle del mondo e questa pelle del mondo necessita di essere condivisa, comunicata, amata, custodita, difesa e ascoltata.  In-cute è chiesto una CON – FUSIONE con gli altri, perché questa comunione e prossimità ci aiuta a sentire, a provare qualcosa per gli altri.  Questa con-fusione ci educa a sentire qualcosa e soprattutto a sentire gli altri, i loro mondi che emergono. 

La pelle rivela la VIA DELLE EMOZIONI. Fa emergere l’interiorità sulla superficie dell’uomo. Non a caso usiamo queste espressioni: ho i nervi a fior di pelle, ridere a crepapelle, a pelle, avere la pelle d’oca, non sto più nella pelle…  sono tutte immagini che esprimono quello che avviene all’interno dell’uomo, seppur la pelle stia alla superficie.   La pelle è anche un CONFINE. È una frontiera, è un limite necessario. Noi siamo anche i nostri confini. La pelle è uno spazio che ci delimita, che apre e chiude delle possibilità di relazioni.  Se vogliamo stare in dialogo con il nostro mondo interiore e riconoscere le emozioni che emergono non possiamo trascurare la nostra pelle, i suoi segnali interiori ed esteriori. Le rughe stesse ci dicono che tipo di emozioni abbiamo vissuto negli anni. Lena 

Seconda parola: Timore

Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. 

(Giobbe 1,1)

Ma chi è Giobbe? Giobbe è tutti noi. Giobbe è l’umanità intera.  

La sua storia è narrata nell’omonimo libro, considerato una perla della tradizione sapienziale raccolta nella Bibbia. Il testo biblico non consente di stabilire la storicità della vicenda di cui egli è protagonista. Probabilmente si tratta di una narrazione morale che ha in Giobbe un personaggio solo rappresentativo; ma forse, proprio per tale motivo, queste pagine della Bibbia sono capaci di dare espressione alla protesta di fronte all’ingiustizia e al dolore, specie quello innocente, che accomuna tante persone umane. 

La vicenda di Giobbe è quella di un uomo che all’improvviso, in una vita vissuta nella fedeltà a Dio e ai suoi precetti, è colpito da una serie di disastri e calamità che lo spogliano di tutto: dei suoi amati figli e delle sue ingenti proprietà. Per ultimo, anche la sua salute viene minata da una malattia che gli procura dolore persistente in tutto il corpo.

La voce di Giobbe diviene emblematica, acquista un valore universale. È un uomo comune: non è un israelita e non appartiene al popolo dell’Alleanza. La sua patria non è ben definita: egli viene da Us, forse nel territorio di Edom, l’Idumea a sud della Giudea.

Giobbe nella lingua ebraica porta nel suo etimo, in ebraico, la domanda: dove è il padre? Dove è il padre vuol dire qual è il senso della mia esistenza, chi risponde alla mia domanda, chi risponde alla mia preghiera? Il padre è colui che fa scudo al dolore della morte. Senza il padre non c’è più scudo all’incertezza della vita, rispetto all’ingovernabilità della vita, rispetto al rischio della morte. La morte del padre ci rivela che nessun Dio sembra poterci salvare. Non esiste scudo nei confronti della nostra fragilità, invulnerabilità. Quel è il senso della mia esistenza?

Timore

Come per la parola incutere, così ho cercato il significato della parola timore. 

  1. Il timore è la condizione, lo stato d’animo di chi teme, di chi pensa possa verificarsi un evento dannoso, doloroso o comunque spiacevole, al quale vorrebbe sottrarsi. 
  2. Nell’uso comune riferito a cosa che si vorrebbe soltanto evitare per discrezione o altro: camminava in punta di piedi per timore di svegliarlo; tralascio il resto della storia per timore di annoiarvi. 
  3. Timore, poi nel senso di rispetto profondo, accompagnato da un senso di soggezione: avere, provare, sentire timore di qualcuno; è un uomo alto, dal viso severo e dallo sguardo penetrante, che incute t. solo con l’aspetto
  4. Timore di Dio, nella teologia cattolica, uno dei doni dello Spirito Santo, per cui vengono infusi negli uomini riverenza e pietà filiale verso Dio. È il timore di ferire l’altro con le proprie azioni. Temo di ferire l’altro. Temo di ferire di Dio con il mio agire e pensare. 

Il timore di Giobbe

Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: 

«I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. 

Sono scampato soltanto io per raccontartelo».

Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò 21e disse:

»Nudo uscii dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò. 

Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,

sia benedetto il nome del Signore!». 

In tutto questo Giobbe non peccò 

e non attribuì a Dio nulla di ingiusto. 

(Giobbe 1,18-22)

Giobbe è un uomo timorato di Dio e lontano dal male. In Giobbe abitava il timore nel senso di paura di ferire Dio e sé stesso venendo meno alla sua fede in lui, è così facendo sarebbe venuto meno a tutto quello che lui aveva creduto nella sua esistenza. 

  • Timore come “pietas”. Giobbe non ha paura di Dio, ma è timorato di Dio. Quello di Giobbe è un timore simile alla pietà cristiana, ossia prova un sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà verso Dio pur non comprendendo il suo agire nei suoi confronti.  Giobbe non vuole agire contro di lui, non vuole creare delle situazioni spiacevoli che potrebbero mettere in discussione la sua fedeltà. Il timore di Giobbe è un timore che lo aggrappa a Dio e non che lo allontana. Nonostante tutto quello che gli accade lo porterebbe ad abbandonare la fede e cadere nella disperazione, egli rimane, resta fedele. Il suo timore lo porta a com-patire Dio
  • Timore come “grido” che invoca presenza. Il timore di Giobbe non è qualcosa di apatico, privo di combattimento. Giobbe non accoglie supinamente quello che gli accade. Il suo modo di essere e di vivere la fede lo porta alla ricerca di una risposta. È un timore che lo fa mettere in cammino, in ricerca. Giobbe comincia a gridare verso Dio, lo teme ma non ha paura di Lui, perché sa di essere integro e retto. È consapevole che c’è qualcosa che non va. Che quello che sta subendo non è giusto, non si merita tutto quel dolore. Perché tanto male contro di lui? 

Così Giobbe diventa l’esempio di chi è consapevole del male non meritato, subito. Giobbe è il paradigma del dolore innocente, di un male subito senza averne colpa alcuna. Giobbe rappresenta l’esempio del grido, della lotta che non si stanca, non dispera. Un grido che chiama l’altro a farsi presente. Un grido di chi ha bisogno di essere visto.  Giobbe diventa portavoce di tutti coloro che innocenti subiscono violenza e da innocenti invocano giustizia. 

Giobbe ci ricorda che siamo tutti un grido, siamo tutti una preghiera. Giobbe rivela questo essere orante della dimensione umana

  • Timore come “domanda” che interroga sé. Dal grido verso Dio per invocarne la presenza, un dialogo a tu per tu, all’interrogare sé stesso. Così Giobbe si chiede: Chi è il Dio di cui ho fatto esperienza? Io l’ho sempre servito, non merito la sventura che mi colpisce? Ma Dio non è il Dio del patto, della legge, dell’alleanza? Cosa ho compreso del mio Dio? Il Dio Padre che è scudo e riparo nei confronti della malattia e della morte che fine ha fatto? E perché incontro ora un Dio diverso, perfido, che mi incalza come un leone, che mi ruba tutto, che mi strangola, che mis tritola, che non mi lascia riposare? Dov’è il Padre? Dov’è la sua alleanza? Che cosa ho fatto io? 

Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacque la notte in cui si disse: 

È stato concepito un uomo!». Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce.

Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube

e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!

Quel giorno lo possieda il buio non si aggiunga ai giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi.

Ecco, quella notte sia lugubre e non entri giubilo in essa.

[…]Si oscurino le stelle del suo crepuscolo, speri la luce e non venga;

non veda schiudersi le palpebre dell’aurora, […] perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?

[…] La mia faccia è rossa per il pianto e sulle mie palpebre v’è una fitta oscurità.

Non c’è violenza nelle mie mani  e pura è stata la mia preghiera.

O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido!

Il timore di Dio

Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro.  Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? 

Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male». 

Satana rispose al Signore: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?  Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo?  Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore disse a Satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, 

ma non stendere la mano su di lui». Satana si ritirò dalla presenza del Signore. (2,1-6)

Accade qualcosa di inaudito: Dio e Satana che si contendono la fedeltà di un uomo giusto. Qui satana compie un’operazione diversa rispetto al serpente in Genesi. In quell’occasione, il serpente insinua nel cuore di Eva e di conseguenza in Adamo un dubbio su Dio, sulla sua identità e sulla gratuità del suo amore. Sembra infatti che Dio non voglia che Adamo e Eva mangino dell’albero perché temeva che loro diventassero come lui. Qui, in Giobbe, Satana semina nel cuore di Dio il dubbio sull’uomo Giobbe: Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente.

Satana chiede: gli uomini ti amano per autentico amore o ti amano per calcolo? Questo è il dubbio che satana insinua nel cuore di Dio. Esiste un essere umano che ti ami al di là di quello che tu, Dio, puoi contraccambiare? Esiste davvero una fede disinteressata? Davvero ti amano? Oppure gli sei utile? 

  • Timore come “debolezza”. Dio teme che Giobbe non lo ami gratuitamente e questo timore lo rende “debole” alla provocazione di Satana. Così, Dio, colpito dal cinismo di satana, accetta la scommessa colpendo un santo, un uomo retto, un giusto… prendiamo Giobbe e togliamogli tutto. Gettiamolo nella polvere e nella cenere e verifichiamo se quest’uomo ti ama ancora. 

Se in Giobbe il timore lo ha condotto alla fedeltà nonostante tutto, al grido chiedendo un appuntamento a Dio, all’interrogarsi su di sé e a mettersi in un cammino interiore alla ricerca di risposte; in Dio il timore di non essere amato gratuitamente lo conduce ad accettare la proposta di Satana verso il giusto Giobbe. Appare così un Dio debole, che si fa influenzare da Satana, perché consapevole di aver creato un uomo libero di amarlo o meno. Quella libertà che Dio ha posto nell’essere dell’uomo e della donna, può diventare un’arma a doppio taglio. L’uomo può scegliere di non amare Dio e satana lo sa. Dio, per amore e non essere amata da burattini, ha dato all’uomo la potenza di dire di no e a messo se stesso nella condizione di poter perdere. L’onnipotenza di Dio, non è una potenza pagana, ma è onnipotenza nell’amore, ossia capacità di lascar libero l’amato con il rischio di perderlo per sempre. Qui sta tutta l’onnipotenza di Dio e tutta la sua debolezza. Dio si è messo nella condizione di sperare che l’uomo non lo abbandoni per sempre. La speranza non è solo dell’uomo ma anche di Dio. Dio teme di non essere amato e satana lo sa. 

Da dove viene questo timore di Giobbe? 

La legge della retribuzione

Il presupposto di questa esperienza di Giobbe sta in una concezione retributiva della legge. Chi fa il bene ha il bene, chi è giusto sarà benedetto. Chi fa il male avrà il male, chi fa il male sarà maledetto. Questa legge diceva che si doveva pagare i mali compiuti secondo l’assioma: Occhio per occhio, dente per dente. Un esempio di legge della retribuzione fra gli uomini: Tu rubi una mela al mercato, io ti taglio la mano; tu guardi mia moglie, io ti tolgo l’occhio; tu mi offendi, io mi vendico. Questa legge della retribuzione era riferita anche a Dio e al suo rapporto con gli uomini. 

Esempi biblici? Tu sei nato cieco? I tuoi genitori hanno commesso dei peccati gravi! Stai male, hai una malattia, hai la lebbra, sei povero, orfano, o una persona sfortunata? Significa che tu hai peccato contro Dio e Dio che è il Giusto e il Terribile giudice ti punisce perché tu capisca. La malattia è il SEGNO della maledizione di Dio. 

Ecco lo scandalo della Legge: Perché gli innocenti sono colpiti dalla sventura? O Dio consente l’ingiustizia? E allora la sua legge è cieca? 

Tutto il libro di Giobbe traccia una linea sottile tra la validità o meno della legge della retribuzione. Giobbe è uomo giusto e timorato di Dio. Uomo fedele e per questo suo amore e giustizia, per la legge della retribuzione aveva ottenuto molti doni e beni in famiglia, figli, terra, animali, ricchezza.  Ora qualcosa non funziona più. Non conoscendo il patto tra satana e Dio, Giobbe fa fatica a comprendere perché gli stia accadendo tutto questo. Giobbe, nonostante viva, letteralmente sulla sua pelle questa ingiustizia per timore reverenziale per il suo Dio non va contro di lui, non mette in discussione la sua fedeltà a Dio, nonostante cresca la sua incomprensione di quello che gli accade tanto da maledire il giorno in cui è nato. Giobbe rimane fedele per amore e per timore, per giustizia e per bisogno di risposte. Egli maledice il giorno in cui è nato, mai maledice il suo Dio, nonostante gli appaia avvolto nelle tenebre della propria sofferenza.  

Terza parola: Forza

Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.

Forza

  1. In generale, la qualità o la condizione d’esser forte. È  la qualità di chi può sopportare facilmente un grande sforzo, resistere alle fatiche (materiali e morali), vincere le difficoltà e imporre il proprio volere.
  2. In senso spirituale: forza d’animo, forza morale, per indicarne il vigore o la creatività: avere forza di volontà; la forza dell’immaginazione, della fantasia, dell’ingegno. La forza può esprimere l’impegno deciso: sostenere con forza le proprie ragioni; protesto, mi oppongo con tutte le mie forze.  Avere la forza di resistere. 
  3. In altri casi si avvicina al significato di coraggio, capacità di resistenza. Nel senso di dare forza, confortare, aiutare a sopportare un male, una disgrazia; farsi forza.
  4. In negativo: forza come violenza materiale o morale diretta a costringere la volontà d’altri scemandone o impedendone il libero arbitrio: usare la forza; imporre per forza; non c’è forza che possa distogliermi dal mio proposito. 
  5. Con riferimento a persona, la caratteristica, il fatto di essere violento, soprattutto come tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale.

La forza nel libro di Giobbe

Quando si pensa a Giobbe, credo che a tutti venga in mente il detto: avere la pazienza di Giobbe. Ecco, se leggiamo con attenzione il libro che narra la sua storia, appare un Giobbe tutt’altro che paziente. Giobbe è un uomo distrutto fisicamente e moralmente e spiritualmente, ma non perde mai vigore. La sua forza, il suo ardire, il suo colloquiare con la moglie, gli amici, con sé stesso, con Dio… tutto rivela la sua potenza e la sua forza. Più che avere la pazienza di Giobbe, dovremmo chiedere di avere la sua impazienza verso Dio, verso il suo dolore in cerca di risposte. 

  • La forza nel silenzio. Quando gli amici Elifaz, Bildad, Zofar giungono da Giobbe rimangano ammutoliti nel vedere tanto dolore. Gli amici sono sconvolti di come trovano l’amico: ammalato, pieno di piaghe, povero, in rotta con Dio che tanto ha servito e amato e temuto. Giobbe per un tempo è ridotto al silenzio e questi amici hanno la reazione più bella che dovrebbe avere una persona difronte al dolore di un amico: la presenza prossima, la condivisione dello spazio e del tempo e, soprattutto, il silenzio. Non è sempre necessario dire qualcosa. Spesso accade che davanti al dolore innocente non ci siano parole da dire. La vera forza sta nella presenza silenziosa e reciproca. 

La forza nel silenzio sta nell’imparare a rimanere. Forse, l’’immagine più bella e autentica del prendersi cura, soprattutto quando non c’è speranza di guarigione, è saper restare. Nei primi sette giorni di presenza dei suoi amici accanto a Giobbe ci insegnano quanto sia importante essere quelli che imparano a restare e restano accanto a chi è nel grido, nel dolore, nel silenzio. Per rimanere e restare, ci vuole forza. Immagino i tre amici a fianco di Giobbe, condividere giorno e notte il suo dolore, attoniti, chissà impauriti da quello che vedevano e non comprendevano. Giorni di silenzio e domande. Giorni di contemplazione. 

  • La forza nella violenza delle parole. A un certo punto però gli amici cominciano a parlare e rivelano di non aver compreso nulla e di essere arroccati nelle proprie posizioni e convinzioni e Giobbe diventa un uomo da accusare a fior di Parola di Dio. I suoi amici usano parole violente, parole che diventano lame inferte nella carne del povero Giobbe. Così Elifaz ricorda a Giobbe che Dio è il giusto per eccellenza, capace di vedere imperfezioni anche negli esseri più puri e gli rammenta la dottrina sul bene come premio e il dolore come castigo delle azioni umane. Bildad spiega che i mali capitati a Giobbe e ai suoi figli devono necessariamente essere il salario di qualche loro colpa e che l’unica condotta sensata è pentirsi davanti a Dio e attendere nuovamente la sua benedizione. Di fronte alle resistenze di Giobbe, Zofar lo ammonisce aspramente e rinnova l’invito a convincersi di essere peccatore e a convertirsi. I tre amici danno solo un consiglio: Giobbe pentiti! Allora Dio ti perdonerà. 
  • La forza contro la legge. Magari taceste del tutto: sarebbe per voi un atto di sapienza!

Giobbe sperimenta nella sua carne che quella sapienza tradizionale, con la sua legge di retribuzione, viene contraddetta dalla realtà. Precisamente il fatto che egli sia un uomo religioso e giusto accentua il senso di “ingiustizia” che la sofferenza suscita in lui. L’intero libro sembra avere proprio come scopo quello di scardinare la semplicistica convinzione che gli avvenimenti dolorosi della vita siano un castigo divino per i peccati commessi. Una convinzione molto radicata, non solo al tempo di Giobbe, ma ancor oggi quando, colpiti da un male imprevisto, domandiamo: “Perché proprio a me? Cosa ho fatto per meritarlo?”. E dunque, se la giusta retribuzione per le opere commesse non può essere una spiegazione della sofferenza umana, qual è il motivo e il senso del dolore? A chi possiamo appellarci per avere una risposta? Giobbe non si rassegna e la sua vicenda sembra indicare all’uomo una strada diversa. La malattia è segno, monito di un Dio della retribuzione o c’è dell’altro?

  • La forza nel rendere ragione. Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere. […].Prenderò la mia carne con i denti e la mia vita porrò sulle mie palme.15Mi uccida pure, io non aspetterò, ma la mia condotta davanti a lui difenderò! Interrogami pure e io risponderò, oppure parlerò io e tu ribatterai. 23Quante sono le mie colpe e i miei peccati? (dal cap.13).

Giobbe in questi versetti manifesta tutta la sua forza. Se è vero che è timorato di Dio, è altrettanto vero che timore non è sinonimo di paura. Giobbe chiama a contendere Dio perché sa di essere giusto, di non aver peccato. Vuole rendere ragione di sé e del suo agire e chiedere ragione a Dio del suo agire verso, contro, di lui. Giobbe chiede un appuntamento a Dio. Lo invoca. Giobbe chiede un faccia a faccia con Dio. 

Giobbe è ostinazione e forza

Ostinazione nella fede che non c’è e forza d’animo che abbattuto continua a “combattere”.  Forza e audacia. Davanti alle prove della vita, anche quando la forza stessa si stanca di combattere è chiesto di non demordere e per un credente significa non smettere di rivolgersi a quel Dio che può a volte apparire oscuro o addirittura nemico. Giobbe non smette di desiderare di vedere Dio faccia a faccia e chiedergli ragione di quello che gli sta accadendo. Gli amici parlano di Dio e su Dio, ma Giobbe vuole parlare con Dio. Questa la sua ambizione. Nella Bibbia c’è Dio che parla agli uomini. Gli uomini parlano di Dio su Dio, ma non con Dio. Giobbe è un’eccezione: lui vuole incontrare faccia a faccia il suo amico che è diventato nemico e chiedergli conto perché i conti non tornano. I conti nella vita non tornano mai. 

Conclusione

La forza di Dio. La risposta di Dio

Nella notte del Getsemani, Gesù fa esperienza radicale della non risposta del Padre nel momento più alto del dolore del figlio. Dio non risponde.  E nel caso di Giobbe abbiamo Dio che a un certo punto appare nella scena. L’autore del testo non dice che aspetto abbia Dio, ma sappiamo che si incontrano. 

I duellanti si incontrano. Ma perché Dio appare a Giobbe?

Perché Giobbe ha ragione, gli amici hanno torto.  Gli amici sono rimasti fermi alla teologia della retribuzione, bene al bene, male al male. Dio sgrida gli amici nella loro posizione e prende sul serio il grido di Giobbe e Giobbe pone la sua questione: perché chi ha vissuto nella legge è colpito dalla legge? 

Perchè chi ha fatto il bene, riceve il male? E Dio risponde: Dov’eri tu quando io facevo la terra? Doveri quando io facevo il cielo? Quando io ho fatto esistere l’evento prodigioso del mondo? Che ne sai tu del mistero della creazione?

Nel libro di Giobbe possiamo ritrovare tre immagini di Dio: 

  1. il Dio della legge della retribuzione;
  2. abbiamo il Dio persecutore, il leone 
  3. il Dio della creazione, il Dio che ha creato il mondo e lo ha donato all’uomo. È lo splendore di Dio dato all’uomo. Qui è la forza di Dio, nella potenza misteriosa della Creazione come atto di donazione di Dio all’uomo. E questo atto potente è talmente infinito che l’uomo non può carpirne il mistero. Dio mette Giobbe di fronte alla sua finitudine, alla sua vulnerabilità manifestando la sua forza nella bellezza del mondo. Dio risponde a Giobbe ricordandogli che come la creazione, la bellezza della natura, non sono misurabili per l’uomo e che si è di fronte a un mistero.  Il mondo è lo splendore della vita, degli esseri viventi e della luce e può essere colpito dal male e dall’oscurità a causa del libero arbitrio.

Giobbe comprende e dice: Ho sbagliato! Non si pente, non è una figura della colpa, però riconosce di aver sbagliato a voler spingersi a capire il segreto della creazione

In questo intreccio di timore e forza, Giobbe vuole comprendere il senso della propria sofferenza, del male, del dolore innocente. Giobbe è rimasto egli stesso vittima della retribuzione; egli stesso ha creduto a quella versione della Legge. Lui avrebbe dovuto continuare a ricevere bene. 

Giobbe stacca la sofferenza dal segno: la malattia non è un castigo. Il male non è la frusta sadica di un Dio faraonico, il male porta in sé il segreto irraggiungibile della creazione, che non si può comprendere, ma solo accogliere e continuare ad affidarsi e fidarsi. 

Giobbe è chiamato a danzare con Dio anche quando se sembra essere assente. 

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