Il banco vuoto, scuola e leggi razziali. Venezia 1938-45 di M.T. Sega

recensione di Paola Scalari

Che cosa si prova ad essere -diversi-? Additati per strada, dileggiati con sputi ed insulti? (pag 11)  Un libro corale. Un testo nel quale le voci di tanti bambini creano una intensa trama emotiva. Un elegante volume che ci permette di ascoltare il racconto di quel lontano passato dove, un giorno qualsiasi, gli alunni ebrei furono scacciati da scuola.  “Non un gesto amichevole, non una sola parola di saluto: io, tutta rossa, accaldata, mi sentivo un’intrusa, mi sentivo una che non aveva più posto in quel luogo” (pag. 17) 

Mandati via perché non di razza ariana.  Indesiderati così come si tenevano fuori dai negozi i cani. Allontanati violentemente da compagni, insegnanti, direttori.   Nel silenzio complessivo di tutti. Nell’indifferenza incredula di ognuno. Senza una parola, senza una spiegazione, senza alcuna cura dei vissuti degli allievi a cui fu proibito tornare a scuola. Solo un direttore, vedendo un bimbo -Roberto-, in lacrime riesce a fargli una carezza sulla testa e a rassicuralo dicendogli che sarebbero venuti tempi migliori.  La domanda quindi che mi ha attraversato mentre l’Autrice mi portava dentro alle vite di questi alunni  che, di passaggio in passaggio, andavano verso la sofferenza, la paura, la morte è stata perché nessuno se n’è accorto, o qualora se ne fosse accorto lo ha ritenuto naturale e non ha reagito. Certamente vediamo qua e là persone ideologicamente asservite dalla ideologia fascista, ma non sono quelle le voci più assordanti. Ci frastornano maggiormente le voci silenti.  Normale fu per molti docenti lasciarli uscire dall’aula. Normale fu essere segregati nella scuola del Ghetto di Venezia. Normale fu non permettere l’accesso alla spiaggia. Normale  fu andare al mare lontani dalle zone degli ariani, là in fondo al viale agli Alberoni.  Normale fu essere segregati in casa. Normale fu per i genitori ebrei non poterci credere perché non avevano fatto nulla di male. E ancora mi domando come può essere che tutto vada succedendo senza alcuna opposizione all’ingiustizia, neanche da parte di chi la subisce. Non è forse l’incredulità la maggior causa? Ed essa quanto si pone a difesa di qualcosa che fa troppa paura? 

Dal febbraio 2020 assistiamo ad un bieco negazionismo che nonostante il crescente numero di morti non crede che Covid-19 esista. E noi, ed io, che di quei morti faccio la conta anche nella mia vita privata, non so come dire che non si può negare la realtà. Che la paura non può paralizzare la visione della verità. Che l’invisibile agli occhi può distruggerci se non lo fermiamo subito. Eppure molti fanno come se il virus killer non esistesse. E la mia flebile voce, che si oppone a chi non protegge con massima attenzione l’altro, viene spenta, rimane inascoltata, viene ingiuriata. 

Il libro di Sega quindi è anche un libro che ci fa riflettere sul bullismo non solo perché i bambini ebrei si vedono deridere o sputare in faccia, ma anche perché la mancanza di empatia è disumanità. E chi delle morti attuali non si fa rispettoso testimone è un bullo. Puro narcisismo maligno che esalta solo se stesso e le sue esigenze. Malattia al singolare nella vita quotidiana delle persone sorde al dolore altrui, ma patologia anche al plurale quando colpisce una comunità che evita di tessere la rete di protezione a cui tutti devono collaborare.

Certo questo libro ci fa riflettere sull’allora della Shoah, ma anche sull’oggi dove una pandemia ha visto mettere fuori della porta della loro scuola tutti gli allievi. I bambini contano così poco? La risposta non mi è difficile da trovare poiché il loro valore è proporzionale alla possibilità di consumo diretto -o attraverso i genitori- che essi garantiscono. Il bambino con i suoi diritti invece non esiste per la collettività. E lo si può lasciare confinato a casa senza porsi troppi interrogativi. Ancora oggi supervisionando tanti Servizi di Tutela dei Minori mi trovo a combattere per garantire condizioni di vita accettabili per i più piccoli e devo contrastare le voci altisonanti dei politici e dei responsabili istituzionali che difendono i diritti dei genitori, la necessità di risparmiare, l’inutilità di investire precocemente sul futuro. Per questo ho apprezzato particolarmente questo testo. Dà voce ai bambini. Li ascolta. Dà loro credibilità. Sa farli narrare. Atteggiamenti questi che troppe volte operatori, educatori ed insegnanti hanno dimenticato. Raccontarsi e far raccontare per mettere in parole emozioni, vissuti, stati d’animo, esperienza. Questa è la scuola a cui credo. Questa è la didattica che con Francesco Berto ho messo a punto nella metodologia della “Ricerca” per far apprendere dall’esperienza. Diversamente le vicissitudini della vita non ci insegneranno nulla. E torneremo a ripeterle soggettivamente e collettivamente.  Maria Teresa Sega ci accompagna quindi ad osservare come una comunità va verso la catastrofe della deportazione in un silenzio assordante. E quei bambini ebrei devono nottetempo fuggire da casa, andare raminghi altrove, correre inenarrabili pericoli, patire la fame, sopportare il freddo, rimanere lontani dai genitori, essere deportati. Morire. 

E mentre tutto questo avviene, ed ormai non è più negabile perché i treni con i vagoni stipati di ebrei deportati sono visibili, risorge una forte voce che si oppone a questa indifferenza. La solidarietà della gente qualsiasi che ospita famiglie ebree perseguitate, la solidarietà delle suore che accettano i bambini nelle loro strutture, la voce della gente qualsiasi, come quella citata nel testo, della signora Adele Zara. Che fece quel che fece salvando molte vite perché andava fatto. 

“Lo fece sapendo che eravamo ebrei e ben consapevole dell’enorme pericolo in cui Ella stessa e tutta la Sua famiglia sarebbero incorsi se fossimo stati scoperti” (pag 121). 

E il coraggio di chi si è opposto al lasciarli andare a morire non diviene più temerarietà, ma empatia umana. Ecco credo che la trama di questo prezioso volume, corredato oltre che dalla testimonianza di tanti uomini e donne che all’epoca erano bambini, da documenti fotografici e di archivio, non solo ci ricordi che è successo ma anche che può sempre succedere. Può sempre accadere che la scuola chiuda le porte, lasci i banchi vuoti, discrimini chi può accedervi e chi non può farlo. 

Oggi questa forbice ci è palesata dalla Didattica a Distanza che ha visto alcuni studenti seguire le lezioni da remoto ed altri alunni scomparire dalle aule virtuali aperte sulla piattaforma. E il loro banco è rimasto ancora una volta vuoto. E la speranza con cui si va concludendo il testo ci lascia uno spiraglio verso un possibile cambiamento. Perché la storia non si ripeta. Perché 

“Bisognava pure che qualcuno dimostrasse umanità in mezzo a tanta barbarie!” (pag117)

http://www.paolascalari.eu/

https://www.edizionilameridiana.it/blog/

2 risposte a "Il banco vuoto, scuola e leggi razziali. Venezia 1938-45 di M.T. Sega"

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  1. Una testimonianza che stringe il cuore. Come è possibile per l’uomo odiare un suo simile così tanto? E’ una domande alle quali, a distanza di tempo, non so dare risposte. Come è stato possibile? Potrebbe accadere di nuovo? Il tempo passato da quegli accadimenti può metterci al riparo da recidive e derive razziste di tal fatta? Le risposte mi fanno paura! Mi guardo intorno, osservo questa società sempre più edonistica, sempre più connessa ma che, contemporaneamente, lascia gli individui sempre più soli. sempre più incapaci di scorgere i valori reali, nel comprendere che il cammino più grande è quello che porta all’uomo e a tutto quello che lo circonda. Se la guardo con distacco, mi rendo sempre più conto che le ombre del passato sono sempre lì…sempre presenti. Mi scavo dentro alla ricerca di qualcosa che assomigli ad una verità che sottolinei la mia lontananza da questa umanità, qualcosa che mi dica “Sì! Tu sei diverso” ma fatico a trovare anche questa risposta. Sono uomo e appartenente a questa società, parte del “sistema” anche io sterilizzo la mia coscienza alle casse dei centri commerciali e guardo con sospetto il ragazzo che mi chiede di accompagnarmi con il carrello in cambio di quella moneta in esso contenuto e con distanza guardo coloro che si aggirano nei nostri centri perché in fondo quello che mi fa paura è il colore della loro pelle come un etichetta attaccata che li definisca come pericolosi o diversi. Mi fermo e rifletto…forse non sono così diverso da chi 80 anni fa permise che quei banchi rimanessero vuoti, da chi non levò voce contro simili barbarie.
    Consapevolezza, è un’accezione perduta nel tempo, forse la mancanza più grande di cui le civiltà contemporanee soffrono. La consapevolezza che quei tempi, quelle ombre, quell’azzeramento di ogni valore umano, non sono poi così distanti.

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  2. Grazie Vanio per queste righe sulle quali possiamo confrontarci e mettere in discussione le nostre scelte e i nostri stili di vita. Mi preme condividere con te e con i tuoi lettori il sentimento che provo quando hai scritto del silenzio assordante e della incapacità di cogliere la disumanità delle misure messe in atto contro gli ebrei. Questo stesso silenzio assordante non è lo stesso di oggi nei confronti del dramma del numero altissimo di Aborti? Resto sgomento dalla capacità del nostro queto vivere di non indignarsi verso questo abominio perpetrato su chi non ha voce. E non è solo l’aborto, di certo è l’esempio più abnorme, ma quante altre ingiustizie palesi passano davanti ai nostri sguardi vacui senza che nessuno alzi una mano? Barconi lasciati partire e affondati tanto per cominciare e poi chi può aggiunga… possa lo Spirito Santo in questa Quaresima fare verità nei nostri cuori.
    Un caro saluto a tutti

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